Aslan, Ismail, Akhmed: i nomi sono tanti, tutti inventati, e nessuno ha un volto, perché i protagonisti sono tutti terrorizzati, e hanno incontrato giornalisti occidentali e operatori di Ong di nascosto, dopo essere fuggiti dalla Cecenia. Tutti però raccontano più o meno la stessa storia: erano entrati in una chat per omosessuali, si erano scambiati messaggi e foto, si erano dati appuntamento in un appartamento di Grozny. All’arrivo, avevano trovato poliziotti armati, che li hanno spogliati, legati e picchiati, torturati per giorni con la corrente elettrica e minacciati di morte se non avessero rivelato i nomi dei loro amici gay. La maggioranza degli uomini sono stati poi consegnati ai loro familiari, ai quali i poliziotti hanno rivelato che erano gay e hanno chiesto di «provvedere», in altre parole, di procedere con un omicidio d’onore. Quasi tutti sono riusciti a fuggire dalla Cecenia grazie all’aiuto di una rete di volontari russi. Ora raccontano ai giornalisti che insieme a loro nella prigione improvvisata c’erano diversi altri uomini, e le Ong confermano che almeno 100 omosessuali ceceni sono stati sequestrati e torturati dalle forze di sicurezza della piccola repubblica caucasica che fa parte della Federazione Russa. Almeno tre uomini sono morti: uno non ha retto le torture, altri due sono stati uccisi dalle proprie famiglie per lavare il «disonore».
La tragedia dei gay ceceni è stata resa pubblica dal giornale d’opposizione «Novaya Gazeta». Il nuovo caso di violazione dei diritti umani ha attirato l’attenzione dell’Europa, e Angela Merkel – che qualche giorno fa ha incontrato Vladimir Putin a Sochi, dopo due anni in cui non metteva piede in Russia – ha chiesto al presidente russo «di esercitare la sua influenza per la protezione dei diritti delle minoranze». Non solo dei gay. Pochi giorni prima un tribunale russo ha dichiarato fuorilegge i Testimoni di Geova, proclamati una organizzazione «estremista» al pari dell’Isis. E l’ondata di arresti dei manifestanti che protestavano contro la corruzione ha spinto la cancelliera a ricordare al suo collega del Cremlino «l’importanza del diritto a manifestare in una società civile».
Il presidente russo ha replicato asciutto che «la Russia non si permette di interferire negli affari interni di altri paesi». Il Cremlino ha negato ufficialmente il fatto stesso dei raid anti-gay in Cecenia, accettando la versione dei fatti fornita dal leader ceceno Ramzan Kadyrov, il più appassionato sostenitore di Putin, secondo il quale la denuncia delle violazioni dei diritti degli omosessuali è una «provocazione dei nemici della Russia». La smentita del suo portavoce Alvi Karimov suona ancora meno rassicurante: «Il problema non esiste perché in Cecenia non esistono omosessuali. Se esistessero persone del genere, le forze dell’ordine non dovrebbero fare nulla, perché sarebbero i loro parenti a mandarli in un luogo dal quale non si torna». Anche la responsabile per i diritti umani della Cecenia, Kheda Satarova, sostiene di non aver ricevuto una sola denuncia dagli omosessuali maltrattati: «E se mi fosse arrivata, non l’avrei accolta. Nella nostra società chiunque rispetti la cultura e le tradizioni darebbe la caccia a queste persone, per fare in modo che non esistano più».
Un raduno di 15 mila persone nella gigantesca moschea di Grozny ha invece dichiarato «nemici del popolo ceceno» i giornalisti che hanno rivelato i sequestri e le torture. Ma dopo che Angela Merkel in pubblico ha richiamato l’attenzione al problema, il presidente russo ha chiesto all’incaricata per i diritti umani della Federazione Russa, Tatiana Moskalkova, di indagare su eventuali violazioni dei «diritti delle persone di orientamento non tradizionale», come vengono definiti in Russia. Moskalkova è apparsa meno propensa a credere a Kadyrov, proponendo di offrire ai gay ceceni che vogliono denunciare il loro presidente la protezione garantita ai testimoni di reati importanti. Il leader ceceno è stato costretto a promettere la sua collaborazione sulla «presunta persecuzione di persone che in Cecenia non esistono».
Non è la prima volta che Kadyrov mette in imbarazzo Mosca: ha minacciato apertamente diversi oppositori dello schieramento liberale, e le tracce di due omicidi clamorosi, quello della giornalista Anna Politkovskaya – che lavorava per la «Novaya Gazeta» – e del politico Boris Nemzov – portano in Cecenia. Kadyrov ha imposto alla sua repubblica – già dominata da tradizioni estremamente patriarcali – una islamizzazione molto rigida, costringendo le donne al velo. Ma è un sostenitore importante, come la chiesa ortodossa, che da anni cerca di impedire l’attività in Russia di gruppi religiosi alternativi.
Ad aprile la giustizia russa ha vietato i Testimoni di Geova, i cui membri ora vengono schedati dalla polizia come «estremisti» accanto a jihadisti e neonazisti. Paradossalmente, il giudice ha considerato pericoloso proprio il rifiuto della violenza del gruppo religioso, i cui membri si rifiutano di fare il servizio militare e di votare: «Una posizione antipatriottica e antistatale», recita la sentenza. Il caso dei Testimoni di Geova – che venivano perseguitati e rinchiusi nel Gulag all’epoca sovietica – è stato un altro dossier sollevato dalla cancelliera Merkel a Sochi, per ora, a quanto pare, senza risultati. Per la legge russa i religiosi sono «estremisti», e la legge anti-estremismo, nata per contrastare il terrorismo islamista e i movimenti xenofobi russi, oggi viene usata contro qualunque tipo di dissenso religioso e politico. Perfino gli studenti scesi in piazza nei cortei anti-corruzione organizzati dal leader dell’opposizione Alexey Navalny oggi vengono indagati per «estremismo», e i casi di ragazzi espulsi dalle scuole o incriminati ormai si contano a decine.
A finire nel mirino non sono solo però i diritti politici. Nel lessico dei moscoviti da qualche settimana è apparsa una parola nuova, «renovazia», rinnovamento, un termine ingrombrante dietro al quale si nasconde la più imponente operazione immobiliare del postcomunismo. Il fine dichiarato è quello di trasferire gli inquilini dei vecchi palazzi prefabbricati a 5 piani, le famigerate «krusciovke» (dal nome di Nikita Krusciov che grazie a queste case piccole e rudimentali risolse il problema abitativo del dopoguerra), ormai fatiscenti, in residenze nuove. Ma la portata dell’esodo – che dovrebbe interessare circa 1,6 milioni di abitanti della capitale, uno su dieci – e i contorni poco chiari del trasferimento hanno suscitato preoccupazione in molti moscoviti.
Il sindaco Serghey Sobianin promette che la demolizione potrà essere bloccata dal «niet» di un terzo degli inquilini di ogni stabile, che si dovranno esprimere entro il 15 giugno su un sito apposito. Chi non voterà verrà considerato automaticamente favorevole. E soprattutto, i proprietari verranno trasferiti in altre case assegnate dal comune, equivalenti per spazio ma non per valore. In altre parole, lo Stato requisirà i loro alloggi, senza fornire una compensazione, con regole talmente poco trasparenti da permettere, scrive il direttore dell’«Ezhenedelny Zhurnal» Alexandr Ryklin, «la nascita di decine di nuovi miliardari». Il potenziale economico della «renovazia» è però pari al suo rischio di immagine: gli inquilini a rischio hanno già convocato una manifestazione di protesta, e il Cremlino ha chiesto maggiore cautela nel promuovere l’iniziativa, ritenuta pericolosa nell’anno che precede le elezioni presidenziali.
Dall’inizio della crisi economica, nel 2014, il numero delle proteste dei lavoratori è aumentato del 40%, espandendosi in diverse regioni e in vari settori, inclusi quelli a finanziamento pubblico. E l’esperto del lavoro Piotr Biziukov non esclude che la rabbia dei proprietari di case – uno dei pochi risvolti della privatizzazione postcomunista avvertiti come positivi dalla popolazione – possano coagulare le decine di microcontestazioni – dei medici, pensionati, camionisti, insegnanti, operai e perfino contadini, per anni assenti dalle piazze – in un’esplosione di protesta senza precedenti.