Si può mutare la strategia della superpotenza americana nei confronti del suo massimo rivale con un monosillabo? Parrebbe di sì. Quel «sì» pronunciato da Biden nella sua recente tournée asiatica in risposta al giornalista che gli chiedeva se Taiwan potesse considerarsi sotto protezione militare a stelle e strisce. Violazione del principio della «Cina Unica», acrobazia diplomatica che ha finora consentito ad americani e cinesi di fingere il consenso sull’esistenza della sola Repubblica Popolare Cinese come rappresentante della Cina sulla scena internazionale. E annuncio che in caso di attacco di Pechino a Taipei gli Stati Uniti non staranno a guardare.
Come ad ogni dichiarazione impegnativa di Biden, le strutture alte del suo Stato sono intervenute per reinterpretarla e spiegare che nulla di sostanzialmente nuovo è accaduto. Falso. Per quanto possa valere un monosillabo di un presidente non sempre presente a sé stesso, si tratta pur sempre della parola del comandante in capo delle Forze armate americane. E per Pechino si tratta della conferma di quel che da sempre teme: la volontà degli Stati Uniti di risolvere la partita per l’egemonia mondiale con tutti i mezzi necessari, se serve anche con la forza militare.
Il fatto che il «sì» di Biden sia stato pronunciato nel contesto di un suo impegnativo viaggio destinato a riannodare i fili del cosiddetto Quad – l’alleanza informale fra Stati Uniti, India, Giappone e Australia destinata a contenere e poi strangolare l’Impero del Centro – lo rende ancora più inquietante. Perché le gaffe bideniane (ammesso che di gaffe si sia trattato) esprimono il clima dei dibattiti negli apparati strategici washingtoniani, sempre concentrati sulla sfida del secolo con Pechino. E comunque la festosa gratitudine manifestata dai vertici taiwanesi all’uscita del presidente Usa rafforza la sensazione che Taipei qualche promessa di intervento in caso di aggressione di Pechino l’abbia ricevuta. D’altronde, la presenza di assetti e uomini in divisa americani nell’arcipelago prospiciente la Cina continentale è in crescita palese.
Subito dopo l’annuncio di Biden, una formazione aerea congiunta russo-cinese ha sorvolato il cielo del Giappone, mandando un messaggio non amichevole al Quad riunito in conclave. Dimostrazione che la strana coppia russo-cinese resiste alla crisi e alla guerra ucraina. Chi pensasse che la dimostrazione di debolezza delle truppe russe nel teatro d’Ucraina possa spingere Pechino a staccare la spina a Mosca, sbaglia di grosso. Almeno per il breve periodo.
Infatti un impegno decisivo attende Xi Jinping a novembre. Il Congresso del Partito comunista cinese è chiamato a confermarlo al vertice di Partito, Forze armate e Stato (in ordine di rilievo), prolungando la sua stagione da Grande Timoniere. Negli ultimi tempi sono emerse, sia pure filtrate, alcune critiche dall’interno del sistema riguardo alla prestazione del Capo e dei suoi fedelissimi.
In particolare: primo, la discutibilissima gestione dell’emergenza Covid. In Cina la risposta all’attacco del virus è stata di tipo militar-disciplinare piuttosto che sanitario. Anche per carenza di un vaccino efficace. Centinaia di milioni di cinesi sono stati costretti a tempo indeterminato a passare mesi chiusi in casa, sotto stretta sorveglianza – e assistenza – delle strutture deputate ad affrontare la crisi. Oggi ancora le grandi metropoli politico-economiche – Pechino e Shanghai – sono in severo lockdown. La gente è costretta a file impossibili per sottoporsi a test quotidiani. Qui e là, ma sempre più apertamente, si levano proteste, si accennano rivolte. Semplicemente, al terzo anno di Covid non se ne può più. Tutto questo mette in questione il consenso intorno al regime, quindi al suo leader.
Secondo, la correlata modesta prestazione dell’economia cinese. Chiaro che tutto il modo di produzione locale soffre della crisi della globalizzazione, dell’accorciamento delle catene del valore, della riduzione dei commerci e del clima di sfiducia dominante intorno alla ripresa rapida dopo l’assalto del virus. Davanti ai porti cinesi stazionano in permanenza migliaia di navi mercantili in attesa di caricare e scaricare le stive. Tutto ciò contribuisce a rallentare il ritmo di crescita dell’economia. Malgrado le iniezioni di commesse infrastrutturali pubbliche, il Pil ha perso slancio e sta entrando in una fase di effettiva anche se non nominale stagnazione (in Cina le statistiche sono aggiustate secondo necessità, entro certi limiti). E poiché il consenso al regime è correlato alla prestazione economica, le fibrillazioni ai vertici del potere si fanno più acute.
Terzo, l’impantanamento dei russi in Ucraina mette comunque in questione il senso strategico della strana coppia Russia-Cina. Contro il parere di molti fra i dirigenti del suo partito, Xi ha sempre puntato sull’intesa con Putin. A gennaio, entrambi i leader avevano definito «senza limiti» il loro patto. I limiti della Russia, palesati dalla prestazione delle sue Forze armate e dall’esposizione alle sanzioni occidentali, sono sotto gli occhi di tutti. Qualche voce si è pubblicamente levata a denunciare il senso della coppia, a metterne in dubbio l’utilità per la Cina. Non occorre particolare finezza filologica per leggervi il segnale a Xi Jinping: correggi la rotta, o andiamo a sbattere. Ma Xi non può smentirsi ora, a pochi mesi dal decisivo appuntamento congressuale. Ammesso che davvero intenda farlo. Di qui a novembre, il dibattito interno cinese si farà sempre più interessante.