A un anno dal voto Donald Trump ha buon gioco a rinfacciare ai suoi nemici gli scenari catastrofici pre-8 novembre 2016: una sua vittoria oltre che impossibile venne descritta come l’Apocalisse per economia, mercati, ecc. Da allora è successo il contrario. Non è neppure scoppiata la terza guerra mondiale… anche se mentre io scrivo sto per partire al seguito del presidente nel suo primo viaggio in Estremo Oriente, una missione gravida di rischi che si svolgerà a ridosso della nuova «linea rossa» cruciale per la pace mondiale, il 38esimo parallelo fra le due Coree. In ogni caso in quell’area del mondo Trump eredita problemi – dal nucleare nordcoreano all’avanzo commerciale della Cina – che nessuno dei suoi predecessori seppe risolvere.
Restando all’economia: crescita a gonfie vele, disoccupazione ai minimi, Borsa alle stelle (trainata proprio dai giganti della West Coast Amazon Apple Google Facebook Microsoft, che s’identificano come il «capitalismo liberal»). Si ha un bel dire che Barack Obama ci aveva lasciato un’economia in buona salute, in questi 12 mesi è migliorata ancora, la crescita accelera. Quali le cause? A parte le dinamiche della «nuova bolla digitale» (si rafforza l’oligopolio delle Cinque Sorelle e la Borsa adora le rendite monopolistiche), c’è anche un ottimismo reale sulla cura Trump. In particolare l’attesa di corposi regali fiscali alle imprese. È tuttora in piedi uno scenario «reaganiano», nonostante le pochissime misure reali che questo presidente è riuscito a far passare (un po’ di deregulation e tanti effetti-annuncio). Questo è un tema centrale per tornare sul bilancio di Trump un anno dopo.
I primi 12 mesi dal voto si sono chiusi con un atto che riguarda proprio le strategie economiche: la nomina del nuovo presidente della Fed. Un finanziere multi-milionario con un passato al Carlyle Group, non un economista, per la prima volta dopo il trio Greenspan-Bernanke-Yellen. Un repubblicano doc, però moderato, non tale da sconvolgere la politica monetaria americana. Un continuatore della linea attuale anche in fatto di vigilanza, cosa che può urtare gli ultrà liberisti. È Jerome Powell. Il presidente della Banca centrale americana è probabilmente l’individuo più potente nell’economia globale. E la facoltà di designarlo è uno dei poteri più significativi del presidente degli Stati Uniti, anche se poi questa nomina deve passare al vaglio del Senato. Powell, 64 anni e già governatore della Fed dal 2012 (su nomina di Obama), rappresenta uno strappo. Anzi due. Nominandolo, Trump calpesta una tradizione per cui i presidenti della Fed fanno due mandati. Janet Yellen che scade a febbraio verrebbe ridotta ad uno solo, un castigo immeritato visto che lo stesso Trump le ha dato (tardivamente) atto di aver lavorato bene.
L’altra tradizione ignorata, è quella per cui vari presidenti degli Stati Uniti hanno confermato un capo della banca centrale del partito opposto: accadde con Greenspan e con Bernanke tutti e due repubblicani e confermati dai democratici Clinton e Obama. Ma Trump vuole «imprimere il segno» anche sulla Fed. È un gesto che mescola continuità e discontinuità. Powell nel suo ruolo di governatore, quindi membro del board, ha sempre votato nello stesso modo della numero uno. Non ha mai preso le distanze dalla strategia Yellen. Quest’ultima a sua volta era una continuatrice di Ben Bernanke, repubblicano, e della sua terapia d’urto anti-crisi: tassi zero e «quantitative easing», massiccia creazione di liquidità con 4500 miliardi di dollari di acquisti di bond.
Il profilo di Powell offre due vantaggi a Trump. Da una parte gli consente di rispettare una regola che sta applicando: disfare tutto ciò che Obama gli ha lasciato in eredità. L’accanimento nella demolizione dell’eredità obamiana è evidente, ed è la ragione principale per non confermare Yellen. Ma d’altra parte sulla politica della Yellen il presidente si è ricreduto. In campagna elettorale l’attaccò ripetutamente, facendo suo un argomento classico della destra rigorista, secondo cui la vasta espansione monetaria avrebbe generato una bolla speculativa. Ora che Trump sta alla Casa Bianca, la bolla speculativa gli sta bene: il presidente rivendica spesso a proprio merito i record storici degli indici di Borsa. Anche la ripresa economica è un vento a favore, una delle poche cose positive di cui può vantarsi questo presidente sceso al 38 per cento nei sondaggi. Trump sa bene che la politica monetaria ha dato un contributo essenziale a un quadro macroeconomico così favorevole.
Nel mese scorso io ho fatto novemila chilometri, a tappe, per trovare risposte a questa domanda: cosa pensano di Trump quelli che lo hanno votato, un anno dopo? Degli altri sappiamo tutto. La maggioranza degli americani lo boccia. La sinistra lo accusa di avere sdoganato il Ku Klux Klan, di aizzare xenofobia e islamofobia, di sguazzare nei conflitti d’interessi, di sabotare le indagini sulle manovre di Putin in campagna elettorale. Se si aggiunge l’ombra sinistra del Russiagate con tutti i suoi sospetti infamanti, cresce il timore che l’ex-tycoon e showman televisivo stia infliggendo ferite gravi al costume democratico, alla civiltà del dibattito pubblico, al rispetto delle istituzioni. Tutto questo però non scalfisce lo zoccolo duro della sua base elettorale. Non ancora.
È il verdetto che riporto dal mio lungo viaggio nell’America che lo ha voluto presidente un anno fa. Ho traversato Stati industriali dal Michigan alla Pennsylvania, dall’Ohio alla West Virginia. Ho ascoltato le loro paure, le sofferenze, l’angoscia e la rabbia. Se sono delusi per le promesse finora disattese – il Muro col Messico, il protezionismo contro la Cina, l’abolizione del sistema sanitario di Obama – danno la colpa ai politici di mestiere, al Congresso. La rinuncia agli accordi di Parigi sul cambiamento climatico piace alla sua base. Applaude il linguaggio bellicoso contro la Corea del Nord e l’Iran. Tutto ciò che lui fa, punta a rendere possibile una rielezione «di minoranza», seguendo la stessa geografia elettorale dell’8 novembre 2016. Trump non fa nulla per conquistare gli altri, lavora a consolidare quella minoranza fedele che – con queste regole elettorali – gli è bastata già una volta.
Questa strategia si è vista all’opera la settimana scorsa dopo l’attentato di Manhattan: la prima volta che un atto di terrorismo non fa scattare il riflesso di unità nazionale. Era accaduto il contrario, almeno inzialmente, dopo l’11 settembre 2001. A 16 anni di distanza, il nuovo attacco firmato da un terrorista islamico è stato usato subito e senza indugi nella polemica politica. Questo presidente è un maestro nel dividere l’America. Lo fa scientificamente. Perché è proprio esasperando le lacerazioni che gli riuscì il miracolo dell’8 novembre scorso, la conquista della Casa Bianca. Così ha usato il terrorista uzbeco per attaccare i democratici. E indirettamente una loro roccaforte simbolica, quella New York che oltre ad essere la città-martire dell’11 settembre è anche la più multietnica d’America, ha come simbolo la Statua della Libertà che accoglie da oltreoceano «le masse povere e stremate», è la metropoli-santuario dove la polizia locale ha l’ordine dal sindaco di ignorare le direttive federali e di non partecipare a retate di immigrati clandestini.
È anche la città di Trump, fra parentesi, ma l’8 novembre gli votò quasi al 70% contro. Lui non finge di essere «il presidente di tutti gli americani», dopo gli otto morti sul lungofiume di Tribeca ha lanciato l’affondo contro il più importante dei politici newyorchesi, Chuck Schumer che guida l’opposizione democratica al Senato. Fu Schumer nel 1990 il promotore della «lotteria della diversità», il sistema di estrazione a sorte che assegna 55’000 Green Card all’anno a stranieri provenienti da paesi poco rappresentati nell’attuale popolazione Usa. È così che il terrorista uzbeco Sayfullo Saipov ha ottenuto il permesso di residenza permanente nel 2010. Trump ha chiesto l’abolizione di quella lotteria, l’introduzione di «controlli estremi» sui candidati alla Green Card, per selezionarli in base a criteri «meritocratici». Ne ha approfittato anche per regolare i conti con la giustizia americana: «Una buffonata». Poiché non risulta che i tribunali di qui siano indulgenti coi terroristi, è chiaro che ce l’ha con i giudici che gli bocciano da mesi i suoi Muslim Ban, i decreti presidenziali con cui ha tentato di chiudere l’accesso da vari paesi a maggioranza musulmana (non l’Uzbekistan, però).
L’opposizione sottolinea che Trump «gioca a favore dei terroristi quando divide e spaventa la nostra popolazione» (Andrew Cuomo, governatore di New York). Schumer oppone a Trump il paragone con George Bush che dopo l’11 settembre radunò tutti i leader democratici newyorchesi per una risposta comune. «Presidente, dov’è la sua leadership?» lo sfida il senatore democratico. Ma quel tipo di leadership non interessa a Trump. Lui vuole consolidare la sua presa su quell’America – un po’ meno della metà – che lo ha votato. La sua strategia ha in mente il sentiero strettissimo di una rielezione che segua lo stesso copione del 2016: sotto il 50 per cento del voto, grazie a un elettorato motivato, disciplinato, fedelissimo, in quell’altra America che non vuole affatto assomigliare a New York.
Nel mondo post-11 settembre, con l’Isis che spiega sui social media come maciullare pedoni e ciclisti usando un furgone affittato, molti americani si sentono esposti a minacce che non avrebbero immaginato 27 anni fa. Dopo l’attentato, divincolandosi dalla morsa dell’inchiesta sul Russiagate, il presidente è tornato all’offensiva. A modo suo.