L’America fabbrica più inflazione

Surriscaldamento economico – Dietro le turbolenze dei mercati c’è il possibile ritorno di un fenomeno che per una generazione di giovani appartiene al mondo dei genitori e dei nonni. Per svariate ragioni ma in parte concentrate negli Stati Uniti
/ 12.02.2018
di Federico Rampini

La lunga e sorprendente luna di miele fra Donald Trump e la Borsa forse è giunta al termine. Non necessariamente per colpa di questo presidente. Il quale, però, ha avuto l’imprudenza di vantarsi per 12 mesi come se i rialzi dei mercati azionari fossero merito suo. Se la tendenza s’inverte, è normale che gliene chiedano ragione. Anche se forse i tempi erano maturi comunque per una «correzione». Di una nuova bolla speculativa c’erano segnali da mesi, o perfino da anni. Non esiste una scienza esatta per stabilire se le azioni in Borsa (o i prezzi dei bond, o quelli delle case) siano ragionevoli oppure gonfiati in modo anomalo. Però quando una Borsa polverizza record storici uno dietro l’alto, e «il cielo è il suo limite», di solito il pericolo è vicino.

Paradossalmente l’America rischia uno shock perché... scoppia di salute. La crescita Usa è al suo ottavo anno consecutivo. Era buona sotto Obama, accelera da quando c’è Trump. Il mercato del lavoro si avvicina alla piena occupazione – che è un’ottima cosa – e finalmente salgono anche i salari più bassi – altra notizia eccellente. Tutto questo, unito alla «sincronizzazione globale» delle crescite (dalla Cina all’Europa) sta alimentando un ritorno d’inflazione. A questo va aggiunto l’effetto-Trump sulle finanze pubbliche. La riforma fiscale che questo presidente è riuscito a far passare poco prima di Natale conteneva un maxi-regalo alle imprese, la generosa riduzione delle tasse sui profitti. Anche quello ha contribuito alle ultime fiammate dei record di Borsa, in un clima euforizzante. A mente fredda però gli investitori cominciano a fare proiezioni sui conti pubblici. La cura trumpiana farà bene ai profitti delle imprese ma scava una voragine nel deficit federale. Per finanziarsi, di conseguenza, il Tesoro degli Stati Uniti dovrà alzare i suoi tassi. Anche la Federal Reserve deve comportarsi di conseguenza. Con l’inflazione che rialza la testa e il deficit pubblico che galoppa, il manuale di un banchiere centrale impone di raffreddare l’economia alzando i tassi. È questo lo scenario che si sta materializzando e che ha cambiato l’umore degli investitori, americani e globali.

Il paradosso è evidente: le Borse cadono perché l’economia americana sta «troppo» bene, e finalmente anche gli operai ne raccolgono i benefici. Ma dietro questo eccesso di salute ci sono anche squilibri evidenti. Cominciamo dalla finanza perché è lì che si è verificato il «meltdown», tipo fusione nucleare, delle ultime giornate. Quando scopri che i tuoi vicini di casa – studenti universitari, ceto medio, non milionari – sono stati contagiati dalla febbre dei Bitcoin, gatta ci cova. Nelle fasi finali delle bolle speculative l’euforia travolge i più sprovveduti, e spesso i meno abbienti. È una triste costante della storia americana che le diseguaglianze sociali sono state «curate» con artifici finanziari: vedi i mutui subprime sulle case dei poveri, la scintilla che scatenò l’ultima crisi nel 2007-2008.

Un altro problema riguarda proprio la Trumponomics. Accelerare sul deficit-spending (spesa pubblica non finanziata da nuove entrate) è un’ottima idea quando l’economia è depressa. Obama lo fece nel 2009. Spingere sull’acceleratore quando l’economia già sta correndo di suo, aumenta il rischio della sbandata in curva.

Volatilità è la parola chiave. Da quando il mondo uscì dalle due mini-crisi cinesi (estate 2015, gennaio 2016), le Borse erano diventate stabilmente tranquille. Le spingeva verso l’alto una poderosa corrente ascensionale. Con rari strappi. Ora invece le fluttuazioni riportano alla luce quel fenomeno: «volatilità» è indice di un mercato dai nervi a fior di pelle.

Dietro c’è l’incertezza che avvinghia gli investitori riguardo al possibile ritorno di un fenomeno che per una generazione di giovani appartiene al mondo dei genitori e dei nonni. Siamo vissuti a lungo in una deflazione profonda, provocata tra l’altro dal cosiddetto «sconto cinese» che attraverso la competizione globale manteneva una pressione sui prezzi. Poi ovviamente abbiamo avuto una crisi lunghissima che dal 2008 in poi ha ucciso l’inflazione per scarsità di domanda.

Oggi i fattori che possono farla rinascere sono molteplici, e in parte concentrati negli Stati Uniti. I lavoratori finalmente ritrovano un po’ di potere contrattuale in un mercato del lavoro che si sta avvicinando alla piena occupazione. L’inflazione salariale si era spenta addirittura negli anni Novanta, a causa della concorrenza cinese, per lo più: i prodotti fabbricati da lavoratori americani venivano sostituiti con made in China molto meno caro. Il che introduce il secondo elemento: se avanza il protezionismo di Trump anche questo può contribuire ad alzare i prezzi. Terza incognita è il deficit pubblico: la riforma fiscale di Trump rischia di scavare un disavanzo che a sua volta contribuisce all’inflazione oltre che all’aumento dei tassi.

Infine sta finendo la droga monetaria che manteneva artificialmente basso il costo del denaro. La Federal Reserve ha smesso di comprare bond sui mercati e comincia molto lentamente a ridurre quelli che ha; la Bce la seguirà, sia pure a distanza.

La droga monetaria, circa 15’000 miliardi di bond acquistati da molte banche centrali del mondo, ha contribuito a costruire un’economia divaricata. Con due inflazioni totalmente divergenti. L’economia reale, cioè soprattutto il mondo del lavoro e del consumo, vive da molti anni in deflazione e il ristagno delle retribuzioni ne è la faccia più drammatica. L’America ne sta uscendo solo ora, ma senza esagerare (+2,9% l’aumento dei salari). Nella sfera della finanza è accaduto il contrario: una iper-inflazione nel valore di tutti gli attivi, azioni, bond, case. A questo hanno contribuito le banche centrali con la moneta facile e i tassi zero. Stipendi fermi e bolle speculative a gogò, sono stati la realtà divaricata almeno dal 2009 in poi. Ora che la droga monetaria sta per finire, il nervosismo è palpabile. Via via che aumentano i tassi direttivi della Fed, questo avrà effetti a cascata in molte direzioni. Svaluterà una montagna di vecchi bond dai rendimenti bassi. Frenerà la domanda di consumo, se questa era finanziata a debito. Potrà disincentivare l’acquisto di azioni. Ma nessuno sa esattamente quanto l’inflazione americana sia destinata a salire. In Europa, d’inflazione ancora non v’è traccia. L’incertezza rende possibili gli improvvisi sbandamenti nell’umore degli investitori: volatilità.