Il capitalismo come lo conosciamo sembra destinato a cambiare radicalmente, scrivono un po’ preoccupati, e anche rassegnati, i giornali americani. Non tanto, o non solo, a causa dell’impetuosa diffusione mediatica delle idee socialiste in tutte le loro diverse articolazioni, da quelle vecchio stampo del candidato presidenziale Bernie Sanders e del magazine «Jacobin» a quelle rivisitate dai politici millennial come Alexandria Ocasio-Cortez. Ad aver messo intellettualmente in crisi il capitalismo americano c’è anche, da destra, il nazionalismo sovranista di Donald Trump che nomina o pensa di indicare dei signor nessuno, tra cui l’ex capo di una catena di pizzerie, nei posti di potere alla Banca centrale e altrove, che fa pressioni e minaccia apertamente gli amministratori delegati e le grandi corporation e che, soprattutto, smantella i trattati di libero scambio, pone barriere protezioniste e si intestardisce in guerre commerciali che non fanno bene alla libera circolazione di merci e capitali.
L’attacco da sinistra e l’attacco da destra, insieme con le diffuse critiche globali sulle diseguaglianze e sulla rottura degli schemi sociali causata dalla rivoluzione digitale, sono un bel peso da reggere per il sistema capitalistico che ha governato il mondo negli ultimi settant’anni. L’aumento delle diseguaglianze nelle società occidentali non è più in discussione, ma un dato assodato sia nelle sale ovattate di Davos sia nelle periferie metropolitane: il sistema rende i ricchi più ricchi e i potenti più potenti, e crea una divisione sociale molto pericolosa tra i milionari e tutti gli altri.
Negli Stati Uniti, ha scritto il direttore del sito Axios Jim VandeHei, «la realtà dei dati è notevole e allarmante: dal 1980, i redditi del top 1 per cento sono triplicati, quelli del top 10 per cento sono raddoppiati, mentre quelli del 60 per cento più basso sono rimasti uguali». Questa è la chiave di interpretazione della crisi attuale, aggiunge VandeHei, ma anche la prima spiegazione sia del rilancio socialista sia del trionfo del populismo.
Il dibattito tra i candidati democratici alle primarie che il prossimo anno sceglieranno lo sfidante di Trump alle elezioni del novembre 2020 riflette questa necessità reale, non solo intellettuale o ideologica, di cambiare registro. I candidati democratici quasi non parlano di Trump, del resto sono tutti d’accordo che sia un pessimo presidente e semmai si dividono sulle modalità di disarcionarlo, se per la via breve delle inchieste giudiziarie e dell’impeachment politico o se è meglio non farsi grandi illusioni sulle scorciatoie e quindi di concentrarsi per trovare il modo di batterlo alle urne.
La discussione politica è sulla riforma del sistema capitalistico americano e sulle possibili soluzioni, dalla redistribuzione del reddito a un intervento pubblico più esteso, dalla sanità per tutti a un welfare state più ampio, dalla cancellazione dei debiti universitari a una politica per favorire abitazioni a buon mercato per i meno abbienti. L’altro grande tema è quello della scomposizione dei monopoli, in particolare quelli giganteschi delle piattaforme digitali che sfruttano la loro posizione dominante per sopprimere la concorrenza e imporre le proprie regole ai consumatori.
Le proposte di alzare le aliquote marginali per i redditi oltre i dieci milioni di dollari e il grande progetto ambientalista e sociale chiamato Green New Deal completano il quadro di un dibattito politico che, a parte le indagini sulle ingerenze elettorali russe nel processo democratico americano, ormai non fa altro che costruire ipotesi di riforma del sistema capitalistico prima che sia troppo tardi.
Mentre sulla protezione sociale e ambientale Trump si posiziona sul fronte opposto, i talk show televisivi non smettono di interrogare i nuovi politici democratici per capire se siano ancora capitalisti oppure dei pericolosi socialisti. La prima indiziata di socialismo, la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren ora in corsa alle presidenziali, se l’è quasi presa quando le hanno chiesto per l’ennesima volta se avesse abbandonato il dogma capitalista: «Certo che sono capitalista, eddai. Credo nei mercati. Non credo nel furto, non credo nell’imbrogliare. È questa la differenza.
Adoro le cose che possono fare i mercati e le cose che possono creare le economie che funzionano, perché ci rendono ricchi e creano opportunità. Ma parlo dei mercati equi, con regole. I mercati senza regole sono invece quelli in cui i ricchi e i potenti si prendono tutto. Questo è quello che è andato in malora in America. Incoraggiare le aziende a costruire modelli di business che si basano sull’imbrogliare la gente non è capitalismo».
Siamo sempre dentro la cornice capitalista e, in fondo, anche Alessandra Ocasio-Cortez si definisce socialdemocratica e progressista, non socialista, nonostante le accuse di eresia antiamericana che le rivolgono Donald Trump e i media conservatori che scelgono comunque di ignorare i sondaggi, come quello di Axios sulla generazione Z che mostra come il 61 per cento dei giovani tra i 18 e i 24 anni ha una reazione positiva alla parola «socialismo», contro il 58 per cento alla parola «capitalismo».
Probabilmente le parole più chiare per raccontare le proposte e lo sforzo di chi vuole aggiustare il capitalismo americano, più che fare la rivoluzione socialista, sono di Pete Buttigieg, 36 anni, sindaco di South Bend, nello Stato dell’Indiana, il candidato gay e millennial alle primarie democratiche del prossimo anno che nelle ultime due settimane ha raccolto molti e inaspettati consensi ed entusiasmi: «Il capitalismo deve essere democratico – ha detto Buttigieg in televisione – perché se hai un quadro normativo in cui le corporation possono farsi le regole a proprio vantaggio, be’, questo non è vero capitalismo. Il modello di capitalismo senza democrazia esiste già, lo si può vedere molto chiaramente in Russia, dove è diventato capitalismo dei compagni delle merende e quindi oligarchia».
Le ragioni a favore di un nuova direzione intellettuale del capitalismo sono un fenomeno contemporaneo, non la riproposizione di idee antiche. Si tratta di una svolta generazionale che si nota anche in Europa, per esempio con il francese Raphaël Glucksman, 39 anni, che si candida con i socialisti alle elezioni europee di maggio, non da nostalgico del socialismo ma da liberale che riflette sulle storture compiute in nome del mercato e della prevalenza dei diritti individuali su quelli della comunità. Non è detto che l’idea di riformare il capitalismo diventi maggioritaria di qua e di là dell’Atlantico, ma certamente è un errore liquidarla come una scoria del passato: semmai fotografa la sensibilità e l’esigenza di una generazione spaesata in cerca di una maggiore protezione.