L’America che tifa per Putin

Ma più insidiosa è la tentazione isolazionista che ha radici antiche
/ 16.05.2022
di Federico Rampini

Quanto è unita l’America nel fronteggiare l’invasione russa in Ucraina? All’apparenza i primi segnali di dissonanza nella coalizione anti-Putin sono europei, mentre l’America procede compatta. Il Congresso degli Stati Uniti ha dato una rara prova di coesione bipartisan quando ha approvato a larga maggioranza un nuovo maxi-pacchetto di trasferimenti all’Ucraina: 40 miliardi di dollari (in parte armi, in parte aiuti economici), perfino più di quanti ne avesse chiesti Joe Biden. La Camera di Washington ha approvato gli aiuti con 368 sì e 57 no, uno schieramento imponente in cui sono confluiti anche molti parlamentari dell’opposizione. Non era scontato in un’epoca storica in cui democratici e repubblicani sono divisi su tutto. Ma qualche crepa appare anche negli Usa. La presidente della Camera Nancy Pelosi è andata a Kiev per incontrare il leader ucraino Zelensky e confermargli la solidarietà dell’America. Ma la delegazione che accompagnava la terza carica istituzionale degli Stati Uniti era composta esclusivamente da parlamentari democratici. Al seguito di Pelosi nella trasferta ucraina non figurava un solo esponente dell’opposizione.

Anche l’America ha al proprio interno delle componenti filo-russe, che tifano contro l’Ucraina in questo conflitto. L’estrema sinistra ha una galassia di opinionisti come Branko Marcetic, il quale teorizza un complotto americano «per trasformare l’Ucraina in un pantano stile Afghanistan per la Russia, magari scatenare un cambio di regime a Mosca, e così mandare anche un segnale alla Cina». Un altro personaggio tipico di questo mondo è Glenn Greenwald, che la sinistra radicale trattò come un eroe ai tempi delle rivelazioni di WikiLeaks contro lo spionaggio americano. Greenwald collaborava con Edward Snowden, la «gola profonda» che poi andò a vivere a Mosca. Greenwald è rimasto negli Usa, è un ospite regolare della tv di destra «Fox News», nei cui talkshow denuncia «il ruolo crescente degli Stati Uniti per indebolire la Russia».

Il mondo della sinistra radicale, molto forte nelle università, per decenni ha istruito il processo all’America quale unica nazione imperialista sulla faccia della terra, e non è pronto a rinnegare i propri dogmi. Deve trovare le prove di un complotto Usa dietro l’aggressione all’Ucraina, e per questo cancella l’evidenza: all’inizio dell’invasione russa Biden era convinto che Putin avrebbe vinto in poco tempo. Ci furono preparativi per mettere in salvo Zelensky in Polonia. La diplomazia di Washington stava ipotizzando una serie di concessioni da fare a Mosca per «congelare» l’avanzata russa e stabilizzare la situazione europea. L’obiettivo di indebolire la Russia, evocato di recente dal segretario alla difesa Lloyd Austin, si è imposto per rassicurare tutti quei paesi vicini a cui Putin ha più volte esteso le sue minacce: Polonia, Paesi Baltici, Romania.

Il partito putiniano d’America è ancora più radicato nella destra trumpiana. Nell’Ohio il pupillo di Donald Trump è J. D. Vance, e difende la classica linea isolazionista del suo protettore: «Make America great again» significa stare alla larga dalle guerre «che non ci riguardano», concentrare le risorse sulla rinascita dell’industria nazionale e dei posti di lavoro perduti con la globalizzazione. Un’altra trumpiana, la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene, sostiene che l’Ucraina ha «provocato» l’invasione della Russia. Trump è un po’ più ondivago. All’inizio della guerra disse che Putin era «un genio» e Biden «un incapace». Di recente ha definito l’aggressione all’Ucraina «un genocidio», proprio come il presidente in carica. Però continua a smarcarsi dalle azioni di Biden. Lo ha fatto in modo esplicito suo figlio Donald Junior (molto attivo nella campagna elettorale), che ha dichiarato: «L’Ucraina è uno dei paesi più corrotti del mondo, non dovremmo mandarle aiuti». L’universo dei social di estrema destra è sempre ricettivo verso la propaganda di Mosca, per esempio continua a riprendere le fake news russe su laboratori di armi batteriologiche creati dagli americani in Ucraina.

Una vittoria repubblicana alle elezioni di metà mandato non si tradurrà per forza in un dietrofront della strategia di Washington. Politica estera e sicurezza nazionale sono terreni sui quali il presidente ha l’ultima parola, e Biden rimarrà in carica per altri due anni. Né bisogna dare per scontato che prevalga la corrente putiniana dentro il partito repubblicano: quando c’era Trump alla Casa Bianca i suoi tentativi di «flirt» con Putin fecero inorridire molti parlamentari del suo partito. Più insidiosa è la tentazione isolazionista che ha radici antiche nella storia della destra americana. Trump risvegliò questa tradizione con i suoi ripetuti attacchi alla Nato. La realpolitik, insieme alla convinzione che la vera sfida del futuro è con la Cina non con la Russia, possono spingere a un disimpegno americano dall’Europa: sarebbe la strada opposta rispetto a quel che chiedono i paesi più vulnerabili di fronte all’espansionismo russo, lungo la fascia che unisce Helsinki e Stoccolma, Riga, Tallinn, Vilnius, Varsavia, Bucarest.

Altre capitali, da Berlino a Parigi e Roma, possono interrogarsi sulla tenuta dell’atlantismo americano nel lungo periodo. Tanto più che una critica alla linea tenuta sull’Ucraina viene anche da personaggi vicini all’establishment democratico, come l’opinionista del «New York Times» Thomas Friedman. Quest’ultimo mette in guardia Biden contro il pericolo di scivolare verso un conflitto diretto con la Russia. Secondo lui Washington non deve farsi dettare la propria strategia dal presidente ucraino Zelensky: deve aiutarlo a ricacciare indietro i russi, poi a negoziare la pace più equa possibile e basta. Ma non allargare la Nato all’Ucraina. Altri temono che lo stesso ingresso della Finlandia e della Svezia possa risucchiare l’America verso responsabilità sempre maggiori, costringendola a difendere – in caso di attacco russo – un numero di nazioni ancora più vasto. In fondo, per com’è andata finora, questa guerra è una rivincita per «the Blob», quella potente lobby globalista che è trasversale, bipartisan, legata al ruolo «imperiale» degli Usa, e che criticò la ritirata da Kabul.