L’Aja condanna Karadzic all’ergastolo

Ex Jugoslavia – Il leader dei serbi era stato condannato in primo grado nel marzo 2016 a 40 anni di reclusione per genocidio e crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo e il massacro di Srebrenica
/ 01.04.2019
di Alfredo Venturi

Voleva sbarazzarsi dalla condanna a quarant’anni di carcere per genocidio e crimini contro l’umanità che aveva rimediato in primo grado, per questo Radovan Karadzic aveva fatto ricorso in appello. Ma rispetto a quella dura sentenza i giudici internazionali dell’Aja hanno rincarato la dose: ergastolo. Sul piano strettamente pratico non fa molta differenza: l’uomo che fu a capo dello stato serbo ritagliato all’interno della Bosnia musulmana ha settantatré anni, e dunque in ogni caso vivrà dietro le sbarre quel che gli resta da vivere.

Tuttavia il nuovo verdetto, emesso quattro anni dopo la sentenza di primo grado, ha un grande significato storico e politico. Non a caso è stato salutato con gratitudine e commozione dalle «madri di Srebrenica», le donne che videro i loro figli, i padri e i mariti trucidati a migliaia quei terribili giorni dell’estate 1995, quando nella piccola enclave musulmana incastonata nella parte orientale della Bosnia la guerra che divampava ormai da tre anni conobbe il suo culmine più atroce. Fu anche un colpo durissimo al ruolo e all’immagine delle Nazioni Unite, che avevano dichiarato Srebrenica «zona di sicurezza».

C’erano infatti sul posto i caschi blu dell’Onu, un contingente di 450 soldati olandesi, incaricati di proteggere la minoranza assediata. Ma quando arrivarono le milizie del generale Ratko Mladic, rafforzate da un reparto paramilitare dei cosiddetti Scorpioni, le truppe internazionali si ritirarono, e così gli uomini di Mladic poterono entrare nella cittadina e impadronirsi dei suoi abitanti. Come è risultato al processo, Karadzic aveva ordinato di «portare i prigionieri da qualche parte». Le truppe serbe presero gli abitanti di sesso maschile, più di ottomila persone fra i dodici e i settantasette anni di età, li condussero nei boschi circostanti e li sterminarono tutti.

La pratica mostruosa della pulizia etnica conobbe in quei giorni di luglio il suo culmine, non si era mai visto niente di simile dopo le camere a gas e i forni crematori dei Lager nazisti. Naufragò miseramente l’illusione che dopo Auschwitz nulla del genere potesse più accadere nella vecchia Europa. A Potocari nei pressi di Srebrenica, dove sul luogo della carneficina è stato allestito un cimitero-memoriale, le donne che quel giorno furono lasciate sole a piangere i loro uomini hanno salutato abbracciandosi in lacrime la nuova sentenza dell’Aja.

Ci sono state anche reazioni di tutt’altra natura. È un verdetto «cinico e arrogante», sostiene il capo della comunità serbo-bosniaca Milorad Dodik. Il tribunale dell’Aja fu istituito dalle Nazioni Unite per perseguire i crimini commessi durante le convulsioni che hanno segnato il collasso della Jugoslavia: ebbene, secondo l’opinione prevalente a Belgrado applica una giustizia selettiva. Analoghi accenti a Mosca, sul filo di una tradizione che affonda la sua antica radice nella comune fede ortodossa: la Russia protettrice dei correligionari serbi.

La valutazione critica si riferisce al fatto che la giustizia internazionale, regolando i conti dopo il conflitto, ha colpito soltanto la parte serba. Il rilievo non è del tutto campato in aria, perché anche gli altri attori di quel dramma, musulmani e croati, si resero responsabili di soprusi e atrocità. Ma nulla di simile al massacro di Srebrenica né al tragico assedio di Sarajevo, la capitale circondata per più di tre anni dalle milizie serbe dove i bombardamenti e l’implacabile tiro dei cecchini diretto contro chiunque si mostrasse alla vista uccisero diecimila persone.

Nel rendere pubblica la sentenza di appello il presidente della corte ha precisato che Karadzic è stato condannato anche per l’assedio di Sarajevo oltre che per i fatti di Srebrenica e per molte altre violazioni del diritto. In tutto sono undici i capi d’imputazione che la corte d’appello ha riconosciuto fondati, fra i quali due per genocidio e cinque per crimini contro l’umanità. Per alcuni altri episodi denunciati dall’accusa la corte ha invece accertato la mancanza di prove che possano farne risalire la responsabilità a Karadzic. Ce n’era comunque abbastanza per arrivare alla conclusione che la condanna di primo grado, sia pur pesantissima, era del tutto inadeguata rispetto alla straordinaria gravità dei fatti accertati.

Le colpe di colui che fu l’indiscusso detentore del potere politico nella Repubblica serba di Bosnia non sono certamente inferiori a quelle dello spietato comandante militare, il generale Mladic, anche lui catturato dopo una lunga latitanza e condannato all’ergastolo dai giudici dell’Aja.

Karadzic ha ascoltato impassibile la sentenza, più tardi il suo difensore Goran Petronjevic ha riferito la sua prima reazione: tutto questo, ha detto, «non ha alcun legame con la giustizia». L’avvocato non esclude la possibilità di richiedere una revisione del processo, sulla base di elementi che a suo dire non sono ancora stati presi in considerazione: ma la prospettiva appare improbabile, e il verdetto definitivo. Si chiude così la vicenda dell’uomo che nei primi anni Novanta, durate l’implosione della Jugoslavia, si propose alla ribalta di quella cruenta attualità con un’immagine paradossalmente sfaccettata. Era uno psichiatra e un poeta, suonava volentieri la balcanica gusla, un rustico violino monocorde, e si dilettava a comporre canzoni popolari. Alla fine degli anni Ottanta era stato fra i fondatori del Partito democratico serbo. 

Più tardi, quando i serbi boicottarono il referendum per l’indipendenza della Bosnia-Herzegovina, fu al vertice della nuova autoproclamata entità statale che sognava di allargarsi a tutte le parti del territorio bosniaco in cui vivevano minoranze serbe. Karadzic godeva dell’appoggio politico e militare di Slobodan Milosevic, presidente prima della Serbia e successivamente, in seguito alla disgregazione jugoslava, della Repubblica federale composta da Serbia e Montenegro. Anche Milosevic finirà sotto processo all’Aja per crimini di guerra e genocidio, ma morirà prima che venga pronunciata la sentenza.

Divampata per quasi quattro anni, la guerra provocò la morte di oltre centomila persone. In quei lunghi anni Karadzic compariva spesso davanti alle telecamere a Pale, una piccola città sulle colline di Sarajevo che fungeva da capitale provvisoria del suo stato, e difendeva il diritto della sua gente a ritagliarsi la propria autonomia. Ma preferiva sorvolare quando gli chiedevano con quali mezzi quel diritto venisse perseguito. Il confronto armato durerà fino al dicembre del 1995, quando la pace faticosamente elaborata a Dayton sotto l’egida del presidente americano Bill Clinton e sottoscritta a Parigi, chiuderà finalmente la parentesi bellica. L’accordo cerca di conciliare ciò che a lungo è apparso inconciliabile.

La regione diviene uno stato federale costituito dalla Federazione di Bosnia-Herzegovina (che comprende croati e musulmani), e dalla Repubblica serba di Bosnia, rispettivamente con il 51 e il 49 per cento del territorio. Poiché la distribuzione etnica è quanto mai frammentata, il trattato prevede libertà di movimento per chiunque voglia trasferirsi altrove e meccanismi di tutela delle minoranze, oltre a un sistema di presidenze a rotazione dell’organo collegiale collocato al vertice dell’assetto istituzionale.

Karadzic non è fra i partecipanti al negoziato di Dayton, è Milosevic a rappresentare i serbo-bosniaci. Più tardi sparisce dalla circolazione, perché la comunità internazionale intende giudicare lui e gli altri responsabili delle atrocità commesse durante la lunga guerra civile. Inseguito da un mandato di cattura, con l’aiuto di personaggi di alto livello politico si rifugia nell’amica Belgrado. Cerca di scomparire nel nulla: si fa crescere una barba da santone e cambia nome, diventa Dragan David Dabic e si guadagna da vivere praticando una specie di medicina alternativa. Lavora presso due ospedali privati della capitale serba, pare che abbia ideato e applicato con successo un metodo di cura della sterilità maschile.

Nascosto dietro la sua lunga barba bianca vive modestamente, appare addirittura male in arnese, frequenta un locale in cui passa il tempo giocando a scacchi davanti a una grande fotografia che ritrae proprio lui, l’eroe nazionale Radovan Karadzic. Ma non tutti cedono al fascino della leggenda, qualcuno lo riconosce e lo denuncia, nel 2008 lo arrestano e lo portano all’Aja. Ora gli tocca di affrontare, dopo quella armata, la guerra giudiziaria: che non gli lascerà scampo e lo porterà all’ergastolo.