«Che momento per arrivare qui, c’è così tanta eccitazione!». Così parlava, lo scorso 24 febbraio, il premier pakistano Imran Khan avviandosi al suo albergo di Mosca proprio mentre Vladimir Putin annunciava l’invasione dell’Ucraina. Khan, impermeabile alle critiche come alla geopolitica, aveva la faccia del gatto che ha appena ingoiato il suo topolino preferito, visto che sulla «libera» stampa pakistana si sprecavano le lodi al viaggio del «primo premier pakistano a mettere piede in Russia negli ultimi 30 anni». Così, mentre Putin bombardava, Khan si sedeva alla tavola extralarge del presidente russo e si intratteneva in chiacchiere più o meno da salotto. Visto che, al suo ritorno a casa, nella borsa dei pakistani non si poteva trovare nemmeno uno straccio di accordo firmato.
Alle ripetute critiche, i fan del premier pakistano rispondevano che non aveva avuto il coraggio di parlare di pace a Putin mentre impazzava la guerra. Sarà, ma il Pakistan, insieme ad altri 34 paesi, si è rifiutato di votare la risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che condannava l’invasione russa dell’Ucraina, seguendo pedissequamente le indicazioni date dai padroni cinesi. E alle pressioni europee Khan rispondeva sdegnato: «Noi non siamo gli schiavi di nessuno». Guadagnandosi alla fine in Parlamento una mozione di sfiducia da parte dei partiti di opposizione.
D’altra parte, Khan si è limitato a cogliere gli umori popolari: creati ad arte dalle solite migliaia di bot (software che, accedendo al web sfruttando gli stessi canali utilizzati da veri utenti, sono in grado di svolgere i compiti più vari in maniera autonoma) sia cinesi sia russi che imperversano online nel sud dell’Asia. Facendo leva su una delle più vecchie e prestigiose narrative pakistane: l’odio contro l’America e l’Occidente tutto, colpevoli di ogni male della società locale. È stata l’America a creare il terrorismo in Pakistan «per cui Islamabad ha pagato un prezzo altissimo», è l’Occidente a mantenere il Pakistan nella lista grigia della Financial action task force, è colpa dell’Occidente se l’economia pakistana ha un disperato e continuo bisogno del Fondo monetario internazionale, sono i costumi importati dall’Occidente che causano stupri e violenze nei confronti di donne e bambini. Quindi, quando per una volta sono «i bianchi che ammazzano i bianchi» (citazione testuale), non bisogna farne un dramma. Anzi, bisogna sostenere Putin per dare una lezione all’Occidente. Accusato via social media di razzismo verso i profughi di colore e di usare standard diversi per i rifugiati ucraini, «biondi e con gli occhi azzurri», e per quelli siriani o afgani.
La stessa narrativa si ritrova, per ragioni diverse, dall’altra parte del confine. L’India è stata difatti l’unica democrazia ad astenersi dal voto di condanna per la Russia in sede Onu. La decisione è stata acclamata, in India, in modo praticamente unanime sia dalla stampa sia dai media, su cui circolavano e circolano gli stessi video e post di propaganda filo-russa. In questo caso, a influire non è tanto il sentimento anti-occidentale, che pure striscia da qualche anno sottotraccia nella società indiana, ma considerazioni di natura geopolitica e storica. La Russia, per farla breve, è il principale fornitore di armi dell’India: il 70% dei mezzi e dei sistemi adoperati dall’esercito è ancora di origine russa. E anche se negli ultimi anni la dipendenza da Mosca si è notevolmente ridotta, le importazioni indiane di armi dalla Russia ammontano ancora a un buon 50% del totale della spesa militare.
Non solo: lo scorso dicembre Narendra Modi e Putin hanno firmato una serie di accordi commerciali e militari, incluso un programma di cooperazione militare e tecnica di 10 anni che vedrà l’India produrre mezzo milione di Kalashnikov. L’India costruisce già missili BrahMos in collaborazione con la Russia e ha acquistato il sistema di difesa aerea S-400 da Mosca, come deterrente strategico contro Pakistan e Cina. Un’impresa statale russa sta inoltre costruendo la più grande centrale nucleare dell’India. E l’India, assetata di energia, conta sul petrolio e sul gas russi per rilanciare la sua economia. In Ucraina si trovavano migliaia di studenti indiani (e migliaia negli anni passati hanno studiato in Russia o in altri paesi dell’ex Unione sovietica) che dovevano essere evacuati in modo sicuro e di cui circolavano in rete video in cui venivano picchiati dagli ucraini. È inoltre molto difficile per Delhi archiviare decenni di storia di cooperazione diplomatica con la Russia su diverse questioni. Quindi, per quanto a disagio il governo indiano possa sentirsi sull’invasione dell’Ucraina, l’India continuerà a seguire la vecchia strategia del «non allinearsi» e a «promuovere il dialogo». Vecchie formule, certo, che consentono però a Delhi di continuare a destreggiarsi tra alleanze moscovite e alleanze occidentali.
La buona vecchia realpolitik di cui Delhi è sempre stata maestra: d’altra parte è l’interesse nazionale a guidare sempre e comunque le scelte strategiche indiane e non la logica delle alleanze. Così, mentre gli americani e l’Europa mettono Islamabad sotto pressione, le proteste nei confronti di Delhi si limitano a una generica e blanda routine. Perché, proprio come l’India non può permettersi di perdere la Russia, gli Stati Uniti non possono permettersi di perdere l’India. Hanno bisogno dell’altra entità per affrontare in modo efficace la Cina, che minaccia l’India ai confini e l’America in termini di leadership globale.