L’Africa ci invaderà?

Questione africana – Entro il 2050 la popolazione africana raddoppierà e alla fine del 2000 quadruplicherà, mentre in tutti gli altri continenti la curva demografica è in calo. Gli europei stanno cercando di fermare con uno muro uno tsunami provocato dal clima
/ 02.07.2018
di Pietro Veronese

Ci si è messo perfino il presidente francese Macron a cercare di convincere gli italiani che non esiste alcuna «emergenza emigrazione» in questa estate 2018 e che anzi gli sbarchi si sono fortemente ridotti per numero e per entità. Dell’80 per cento, ha precisato l’inquilino dell’Eliseo. Si potrebbe obiettare che la Francia, opposta all’Italia in una diatriba sempre più acrimoniosa sull’accoglienza e la gestione dei migranti, è una fonte di notizie sospetta. Ma i dati citati dal capo dello Stato francese sono confermati dagli osservatori governativi al di qua delle Alpi. E menzionati ad ogni occasione dagli esponenti del precedente governo, in particolare dall’ex ministro dell’Interno Minniti, alla cui iniziativa – i discussi accordi con i capotribù libici – si deve la riduzione del flusso migratorio dall’Africa verso le coste italiane.

Il problema attuale, per usare ancora le parole pronunciate da Macron nella sua conferenza stampa al termine della recente visita a Roma, non sono gli sbarchi quanto la «crisi politica interna all’Europa dovuta ai movimenti secondari». Cioè agli spostamenti – o i tentativi di spostamento – dei migranti dai Paesi di primo arrivo verso altre nazioni dell’Unione. Impediti per esempio dal blocco imposto dalla Francia ai valichi di frontiera, in particolare a Ventimiglia. L’«emergenza emigrazione» è dunque piuttosto una questione intergovernativa comunitaria, senza alcun rapporto con un presunto aumento dei barconi e dei loro passeggeri.

Ma come politologi, sociologi e psicologi sociali non cessano di spiegarci, quello che conta nei comportamenti collettivi – per esempio nelle scelte elettorali – non è tanto la realtà dei fatti, quanto la percezione che singoli individui e collettività ne hanno. E non c’è dubbio che l’elettorato italiano del 2018 sia convinto di affrontare una «emergenza emigrazione». Lo attestano non solo il successo della Lega nel voto dello scorso marzo, quanto anche il vasto consenso alle draconiane decisioni del ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio Salvini. La chiusura dei porti alle navi delle ong cariche di migranti soccorsi in mare è stata accolta positivamente da un’ampia maggioranza di italiani, incluso un certo numero di elettori del PD.

A un dibattito su questi argomenti alcune settimane prima del voto del 4 marzo, l’allora ministro degli Interni Minniti aveva ricordato come qualche anno prima il PD avesse perso per la prima volta nelle sua storia le elezioni amministrative a Bologna sul tema della sicurezza. Le statistiche dicevano che il capoluogo emiliano era una delle città più sicure d’Italia e che la microcriminalità era ovunque in calo; eppure l’elettorato era convinto di rischiare ad ogni passo una rapina a mano armata e aveva scelto i partiti «securitari» della destra. Allo stesso modo Minniti, l’artefice degli accordi con la Libia, sarebbe stato bocciato dagli elettori il 4 marzo (salvo essere ripescato grazie ai meccanismi previsti dalla legge). La percezione è dunque sovrana. È semmai compito dei media, nei limiti delle loro possibilità, cercare di riaccostare la percezione collettiva alla reale portata dei fatti.

Il fenomeno migratorio apparirebbe allora non come una transitoria emergenza, bensì come un mutamento enorme, di cui quanto abbiamo visto sin qui è appena l’inizio. Esso è parte di un sommovimento secolare che sta mutando per sempre il volto dell’Africa e il suo posto, il suo ruolo nel mondo. In un recente articolo sulla «New York Review of Books», lo studioso americano Howard W. French usa l’espressione «questione africana», affermando: «La questione africana incombe come una sfida umana epocale per il resto di questo secolo». Se questa affermazione è vera, allora la percezione è sbagliata: non per eccesso, ma per grandissimo difetto. Il problema non sono i barconi, gli sbarchi, la cattiva accoglienza che trasforma i quartieri delle nostre periferie in baraccopoli africane, il senso di ritrovarsi in minoranza a casa propria. Il problema è che siamo all’inizio di un rivolgimento storico di immensa portata al quale siamo e continuiamo ad essere del tutto impreparati, noi cittadini europei e i nostri governanti non meno di noi.

Il primo dato alla base della «questione africana» è demografico. Fino alla seconda metà del XX secolo il continente nero è stato il meno popoloso, o meglio il più sottopopolato. Alcuni studiosi fanno risalire questa situazione ai lunghi secoli dello schiavismo, per l’effetto combinato delle costanti razzie di popolazione in età riproduttiva e della generale precarietà e conflittualità dell’esistenza. Tra il 1700 e il 1850 la popolazione africana stagnò intorno ai 50 milioni di individui; senza la tratta degli schiavi, stimano alcuni demografi, sarebbe raddoppiata. Ma dopo le indipendenze di metà Novecento la curva demografica africana ha preso ad impennarsi e intorno alla fine del secolo ha superato trionfalmente la soglia del miliardo di individui.

Oggi gli africani sono un miliardo e 250 milioni. Secondo gli uffici competenti delle Nazioni Unite (https://esa.un.org/unpd/wpp/), saranno il doppio alla metà del secolo: due miliardi e mezzo. E alla fine degli anni 2000, stando a un calcolo medio, quattro miliardi e 400 milioni. Un numero ancor più rilevante se lo consideriamo in relazione agli altri continenti: lo sviluppo economico e la massiccia urbanizzazione hanno infatti già da qualche tempo rallentato la crescita demografica dell’Asia, in particolare dei colossi Cina e India. Quanto all’Europa, come ben sanno gli italiani, la sua popolazione indigena stagna o diminuisce.

Sono questi i dati dai quali dovrebbe partire la riflessione pubblica: le cifre su cui dovrebbe porre le fondamenta la nostra «percezione». Sarebbe allora immediatamente chiaro che affrontare il fenomeno migratorio con il blocco dei porti e il respingimento dei natanti non è molto diverso dall’affrontare uno tsunami armati di un secchio e di uno straccio. Perché la crescente popolazione dell’Africa è sottoposta a una pressione anch’essa crescente e anch’essa ancora a stento percepita da noi europei malamente informati. Questa pressione è costituita dal cambiamento climatico, il secondo grande fattore della «questione africana».

Se la causa maggiore del mutamento del clima terrestre è l’emissione di gas serra, allora l’Africa è il continente che vi contribuisce meno di ogni altro, perché resta il meno industrializzato, il meno motorizzato, il meno urbanizzato. Ma poiché la gran parte della sua estensione è compresa nella fascia tropicale del pianeta, dove uno o due gradi di differenza nella temperatura porterebbero a superare la soglia di sostenibilità dell’agricoltura e dell’allevamento, è anche quello che rischia di patirne più acutamente le conseguenze. E infatti tutti gli studi in materia prevedono un incremento dei flussi migratori come effetto del climate change. L’Europa, dice Howard French, «sembra rifiutare di affrontare la portata delle trasformazioni che si annunciano». Prima le accetterà, meglio sarà per lei. La «questione africana» non accetterà rinvii.