Non andavano più d’accordo su nulla, Donald Trump e il suo superfalco John Bolton. Afghanistan, Iran, Corea del Nord, Venezuela: ovunque Bolton avrebbe voluto un’America «imperiale», aggressiva e determinata, fino all’uso delle armi se necessario. Trump è fedele allo slogan America First che incarna l’anima di un’altra destra: isolazionista, ripiegata sui propri interessi materiali, protezionista, stufa di fare il gendarme del mondo, pronta a voltare le spalle anche ai propri alleati.Bolton appartiene all’era unipolare dopo la caduta del Muro di Berlino, l’atteggiamento di Trump ci rinvia alla memoria della destra che nel 1914 e nel 1940 si opponeva all’ingresso dell’America nei conflitti altrui. Due destre lontane un secolo fra loro. Bolton divenne una celebrity ai tempi in cui i neoconservatori ispiravano la politica estera di George W. Bush, progettavano l’invasione dell’Iraq (2003) e poi sognavano anche quella dell’Iran. Falchi sì ma globalisti.
Bolton, molto più del pittoresco Steve Bannon, poteva fare da punto di riferimento per i sovranisti del mondo intero, da Salvini a Orban a Bolsonaro. Unilateralista ma capace di pensiero strategico, Bolton aveva conquistato alleanze tattiche con alcuni dei vertici del Pentagono. Per esempio nell’ostacolare il ritiro totale delle truppe Usa dall’Afghanistan. Oppure nel resistere alla tentazione di altri summit-burla fra Trump e Kim Jong Un, col nordcoreano che continua imperterrito i suoi test missilistici e dà zero garanzie sul nucleare. Su altri temi i militari sono decisamente più cauti, Bolton è l’uomo delle fughe in avanti come ai tempi di Dick Cheney e Donald Rumsfeld: voleva usare maniere forti contro l’Iran e contro Maduro in Venezuela.
Quest’estate il presidente ci scherzava sopra: «Se fosse per Bolton avrei già dichiarato almeno un paio di guerre». Poi la voglia di scherzare gli è passata. Gli scontri più recenti fra i due sono stati furibondi sull’Afghanistan. Trump ha sperato fino a due settimane fa di orchestrare un clamoroso colpo di scena, un vertice a Camp David per siglare l’accordo coi talebani, e poi annunciare il ritiro di tutti i 14’000 soldati americani prima dell’anniversario dell’11 settembre. Bolton giocava d’intesa coi generali per dissuaderlo, 18 anni di guerra non gli sono bastati, la missione afgana resta incompiuta. È stato il disaccordo fatale, preludio al divorzio tra i due. Che hanno continuato a litigare a distanza, «you are fired!», «non mi hai licenziato tu, mi sono dimesso io».
La cacciata del collaboratore caduto in disgrazia è ormai un classico di questa Amministrazione, è uno dei massimi godimenti per Trump. Gli ricorda il suo successo più bello, il reality-show The Apprentice, l’unico vero trionfo nella sua controversa carriera di businessman. La lista dei licenziati da questa Casa Bianca è impressionante, il ritmo delle porte girevoli è vorticoso. Prima di Bolton sono spariti dalla scena ben tre generali, Kelly Mattis e McMaster. Segretari di Stato, ministri di Giustizia, capi della Cia, a tutti è toccato l’urlo «you are fired!».
Il paradosso è che Trump si libera di un uomo considerato come pericoloso da gran parte dei governi mondiali, alleati o nemici. Sospiri di sollievo si sono sentiti ovunque. L’avventuriero Bolton disprezzava gli europei come pusillanimi. Non ebbe mai tentazioni russofile come il suo capo, anzi ne condannava i flirt con Putin. Puntava alla resa dei conti con la Cina prima che quest’ultima abbia superato il punto di non ritorno nella corsa al sorpasso sull’America. Trump si muove in un universo parallelo, da businessman che vuole solo portare a casa l’affare più redditizio, in tempi rapidi, e gloriarsene con gli elettori. Trump è felice di aumentare il budget della Difesa ma preferisce che i militari restino a casa, non li vuole in giro a rischiare la vita e sprecare i soldi del contribuente.
Resta la domanda da un milione di dollari. Perché Trump scelse Bolton per un ruolo di primissima importanza, a dirigere quel National Security Council dove ci fu Henry Kissinger ai tempi della guerra del Vietnam e del disgelo Nixon-Mao? Perché, come già accadde coi tre generali, o con Rex Tillerson segretario di Stato, questo presidente così bravo a licenziare è un disastro al momento di assumere? La risposta è chiara. Trump continua a scegliere gli uomini sbagliati perché quelli che la pensano come lui scarseggiano, nelle alte sfere. L’establishment di destra storicamente si forma ai piani alti del capitalismo, o nelle accademie militari, o nei think tank sovvenzionati dai miliardari. Esiste un establishment di destra, ma è una destra globalista. I chief executive, i generali, i teorici della deregulation economica, affondano le radici nella rivoluzione neoliberista di Ronald Reagan, nell’escalation del riarmo con l’Unione sovietica. È tutta gente che pensa in grande, vuole un mondo soggetto alla Pax Americana, alle priorità di Washington. La ritirata strategica di Trump è popolare nella pancia di un’America profonda che non esprime élite, e deve fidarsi dell’istinto dello showman.
Donald Trump voleva celebrare il 18esimo anniversario dell’11 settembre 2001 con un annuncio clamoroso, e una sceneggiatura spettacolare. Avrebbe fatto volare in gran segreto il presidente afghano e i capi talebani nel ritiro «strategico» di Camp David, per siglare la pace tra di loro. E quindi regalare agli americani il ritiro totale e definitivo delle loro truppe: 14’000 soldati a casa in 16 mesi, di cui 5000 rimpatriati subito. Lui stesso ha dovuto ripensarci, e in un solo tweet ha offerto due scoop clamorosi. Primo, annunciando quel summit di cui non si sapeva nulla. Secondo, cancellandolo. Mancano le condizioni, ha spiegato, dopo la recrudescenza di attentati, le stragi di civili, e l’uccisione di un militare Usa.
Era una scommessa azzardata, la sua. Trump aveva deciso di fidarsi dell’ottimismo dell’inviato speciale Usa, Zalmay Khalilzad, che conduceva i negoziati sul terreno neutrale di Doha (Qatar) con la delegazione talebana. Khalilzad aveva detto che ormai era stato raggiunto «un accordo di principio». Ivi compreso sull’elemento decisivo per gli americani: la garanzia da parte dei talebani che mai più sosterranno attentati sul territorio degli Stati Uniti; che cioè non ci sarà un bis dell’11 settembre quando il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden organizzò l’attacco proprio dalla sua base afgana. Ma evidentemente quella garanzia non si estendeva all’Afghanistan stesso, dove al contrario i talebani hanno scatenato una nuova escalation di violenze. Remava contro anche il governo di Kabul, refrattario soprattutto alla concessione sulla liberazione di migliaia di ex terroristi o guerriglieri detenuti. I
nfine c’era lo scetticismo del Pentagono. I generali Usa continuano a pensare che andarsene dall’Afghanistan oggi significherà doverci ritornare in futuro: quando i talebani lo avranno riconquistato in toto, in una delle loro continue rivincite, e torneranno a minacciare gli interessi vitali degli Stati Uniti.Dopo Barack Obama anche Trump dunque viene colpito dalla maledizione afghana. La guerra più lunga nella storia degli Stati Uniti, ormai durata 18 anni (più del Vietnam e della seconda guerra mondiale messe assieme), rischia di non concludersi neanche sotto la sua Amministrazione. Obama aveva promesso un ritiro quasi totale delle truppe ma dovette piegarsi alle pressioni del Pentagono che gli impose un «surge», un potenziamento dell’intervento: che comunque non bastò a sconfiggere i talebani.
Trump ne aveva fatto un impegno della campagna elettorale nel 2016: via dall’Afghanistan. Ha creduto di riuscirci. Ancora poche settimane fa i colloqui bilaterali tra la delegazione americana e i rappresentanti dei talebani sembravano avviati a una conclusione positiva. C’erano ostacoli grossi, anzitutto l’opposizione del governo in carica a Kabul contrario a condividere il potere con i suoi nemici storici, ma anche troppo debole nel controllo del territorio. Washington sperava di imporre l’accordo al presidente Ghani con la sua forza di pressione e un po’ di aiuti supplementari. Poi sono intervenute le stragi a ripetizione, rivendicate dagli stessi talebani.
Per Trump è un punto d’onore chiudere le guerre straniere, ritirando truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan. America First è uno slogan che non esprime soltanto il protezionismo economico e il nazionalismo unilaterale, Trump ha sempre rifiutato il ruolo di «gendarme mondiale». Questo spiega il suo atteggiamento anche in Siria, nonché la riluttanza a interventi militari in Venezuela o in Iran.
Il ritiro totale dall’Afghanistan non piaceva ai suoi generali ma neppure a una parte della sinistra, per ragioni umanitarie: il timore che una coalizione di governo fra Ghani e i talebani ricacci indietro molte conquiste, riguardo ai diritti delle donne e alla scolarità delle ragazze. Trump sognava un colpo di scena clamoroso, sul modello dei suoi vertici con Kim Jong Un. (Anche quelli, peraltro, forieri di molte delusioni). Ora deve rassegnarsi: l’Afghanistan probabilmente sarà una delle sue promesse mancate, un argomento in meno da presentare agli elettori nella campagna per un secondo mandato. La tomba degli imperi, è stato definito l’Afghanistan, per le difficoltà incontrate da quello arabo nell’ottavo secolo, da quello britannico nell’Ottocento, e dall’Unione sovietica dopo l’invasione del 1979. Per la verità altri invasori ebbero più successo, in particolare i mongoli. Gli americani si trovano impantanati in un conflitto molto ridimensionato come numero di soldati sul terreno rispetto al 2001-2014, però «open ended»: non se ne vede la fine.