Con 64 voti a favore lo scorso martedì la coalizione di Netanyahu ha approvato l’annullamento della cosiddetta «clausola di ragionevolezza», sferrando un colpo fatale alla già fragile democrazia ebraica nell’ambito della famigerata riforma della giustizia. Nel sistema giuridico israeliano, privo di una costituzione, tale clausola consentiva sostanzialmente al potere giudiziario di impugnare le decisioni del governo ritenute palesemente irragionevoli in base a una serie di criteri.
A nulla sono valsi i mesi di proteste, la contrarietà degli Stati Uniti e neppure le preoccupazioni espresse dai vertici militari, che hanno ripetutamente sottolineato le possibili ripercussioni della legge anche sulla sicurezza del paese che, in preda al caos, è più esposto che mai anche agli attacchi esterni. Sordo anche ai tentativi del presidente e del sindacato di promuovere un accordo, Netanyahu, appena dimesso dall’ospedale, ha raggiunto la Knesset, il parlamento israeliano, per unirsi al voto confermando nuovamente la propria linea di forza.
Dalle elezioni dello scorso novembre Israele sembra essere precipitato in un baratro mai conosciuto prima e dal quale non è chiaro se vi sarà ritorno, almeno nel prossimo futuro. Gli effetti della crisi sull’economia sono già molto evidenti, come si evince dal rating, dall’indebolimento dello shekel, dal calo degli investimenti e dei finanziamenti dall’estero, nonché da un caro vita ormai insostenibile. La «start-up nation» non sembra più la stessa e gli israeliani che possono corrono a richiedere i passaporti stranieri e fanno le valigie. L’esodo, in parte già cominciato con il Covid, si fa sempre più tangibile. A minacciare il primo passo sono stati gli impiegati nell’hitech, seguiti dai professori universitari e ora anche dai medici, che martedì hanno dato vita a una chat sulla «relocation» (trasferimento) che ha visto 1000 iscritti in meno di 24 ore. Sempre i medici sono entrati in sciopero, e non c’è da stupirsi, stando alla Professoressa Idit Mattot, nota anestesista dell’ospedale Hichilov di Tel Aviv, che nelle interviste menziona tra i motivi di preoccupazione discriminazioni nei confronti di pazienti donne, specie se non sposate, di omosessuali e non ebrei, oltre a nomine irregolari per favoritismo.
Non sarà presto per fare le valigie? Secondo alcuni no, considerando anche le previsioni demografiche che prospettano una crescita esponenziale della popolazione ultraortodossa da qui ai prossimi trent’anni. Per delineare lo scenario che vedrebbe il progressivo abbandono del paese da parte delle élite laico-liberali, un giornalista del quotidiano «Haaretz» ha citato l’esempio di Gerusalemme: da città universitaria e cosmopolita, centro di cultura e scambi internazionali, negli ultimi decenni si è trasformata e impoverita, rispondendo quasi unicamente alle esigenze della popolazione ebraica religiosa e respingendo tutti gli altri che, ormai, preferiscono vivere altrove, recandovisi solo per lavoro o altre necessità.
L’impatto emotivo di questi sei mesi sulla popolazione israeliana, già provata da guerre e attentati, è drammatico, come testimoniano l’aumento di richieste di aiuto ai centralini della salute mentale e le narrazioni dei singoli, angosciati al punto da ricorrere ad alcol, sostanze stupefacenti e psicofarmaci per contrastare il disagio psichico e l’incertezza del futuro.
Come è noto, la miglior modalità per affrontare il trauma è quella di passare all’azione. Da qui si spiega anche l’incredibile successo dell’enorme movimento di protesta che, dallo scorso week-end, si è spostato prevalentemente a Gerusalemme, dove sono approdate, in parte anche a piedi, decine di migliaia di persone che hanno piantato le tende sotto il Parlamento nella speranza di ostacolare l’approvazione della riforma. La solidarietà e la tenacia dei manifestanti di tutte le età, che da mesi si riversano a fiumi nelle strade del paese, suscitano commozione, oltre a fungere da ancoraggio concreto e alternativa alla fuga per chi non può o non vuole abbandonare il sogno sionista.
Lo scorso giovedì, il 9 del mese di av secondo il calendario ebraico, gli ebrei di tutto il mondo hanno commemorato la distruzione del Primo e del Secondo Tempio. Come ha recentemente ricordato in un articolo la storica Anita Shapira, in entrambe le circostanze la distruzione fu causata dalla vittoria di una minoranza estremista, riuscita a prevalere sulla maggioranza moderata. Shapira sottolinea la preoccupante somiglianza con le circostanze attuali e scongiura una «terza distruzione».
Se è vero che il destino di Israele è in mano a un gruppo di fanatici incoscienti, megalomani e vendicativi, e che il rischio di una guerra civile non è mai stato così vicino a causa della spaccatura interna, la storica sembra tuttavia voler dimenticare che la grande maggioranza dei manifestanti cosiddetti «liberali» sono a loro volta interessati a conservare la supremazia ebraica (ashkenazita) e la centralità dell’esercito, che hanno come conseguenze l’apartheid e l’occupazione dei territori palestinesi, come sempre fuori dai giochi. Anche il vittimismo della fazione liberale che grida allo scandalo, definendo i religiosi al governo come primitivi, è riduttivo e andrebbe sostituito con nuove narrazioni meno dicotomiche.
Nel frattempo, la speranza a breve termine è che la Corte Suprema impugni la nuova legge, dichiarandola invalida.