Con la votazione federale del 27 settembre sull’iniziativa dell’UDC, che vuole sopprimere la libera circolazione delle persone, tornano in primo piano i rapporti della Svizzera con l’Unione europea. Sono rapporti che dopo la bocciatura dello spazio economico europeo, avvenuta in votazione popolare nel 1992, e dopo alcuni anni di preparazione, si sono fondati su un numero sempre più importante di accordi bilaterali. Questi accordi caratterizzano la via scelta dalla Svizzera in Europa negli ultimi vent’anni e la risposta che ha ottenuto dall’UE. È stata una scelta fondata su tre riflessioni fondamentali, strettamente legate l’un l’altra. La prima si basa sul fatto che la Svizzera ha un’economia piccola ed aperta, per la quale l’importanza del commercio estero è rilevante. La seconda si concentra sulla situazione geografica della Confederazione, posta al centro del mercato interno europeo, in stretto collegamento con forti motori economici come il sud della Germania o la Lombardia. La terza, infine, evidenzia il fatto che l’Unione europea è di gran lunga il nostro partner politico ed economico più importante e rappresenta un mercato di 500 milioni di consumatori. Il 60% del nostro commercio estero avviene con l’UE. Il 52% delle nostre esportazioni finisce nel mercato unico europeo e da questo mercato arriva il 70% delle importazioni in Svizzera. Le percentuali del nostro commercio con gli altri paesi sono molto più basse. Raggiungono il 12% con gli Usa, il 6% con la Cina, il 3% con il Giappone ed il 19% con il resto del mondo.
In questo contesto, gli accordi bilaterali hanno una funzione strategica. Consentono alla maggior parte delle aziende svizzere di accedere direttamente al mercato unico europeo, di godere di quella sicurezza giuridica di cui hanno bisogno per definire le loro strategie ed i loro investimenti, nonché di competere nelle stesse condizioni con le aziende europee in svariati settori, in primo luogo nel campo della ricerca e dell’innovazione. Sono vantaggi che si ripercuotono sulla crescita economica in Svizzera, stimolandola e attutendo gli effetti negativi di possibili crisi finanziarie o della pandemia, dalla quale non siamo ancora usciti. Secondo uno studio della fondazione Bertelsmann, realizzato l’anno scorso, grazie all’introduzione degli accordi bilaterali nel 2002, l’economia svizzera ha registrato una crescita pro capite più rapida degli anni precedenti. Senza l’impatto degli accordi bilaterali il PIL pro capite della Svizzera sarebbe attualmente inferiore del 5,7%.
Di fronte a questo scenario, il Consiglio federale, la maggior parte dei partiti politici, le maggiori organizzazioni professionali e sindacali, un gran numero di aziende, nonché numerosi esponenti della società civile, si schierano in difesa degli accordi bilaterali. Sanno che l’approvazione dell’iniziativa popolare dell’UDC, con la soppressione della libera circolazione delle persone, porterebbe in un primo tempo alla fine dei Bilaterali 1, a causa della «clausola della ghigliottina», e in un secondo tempo, alla probabile disdetta di altri accordi bilaterali, nonché all’impossibilità di negoziare nuove intese per l’accesso al mercato unico. L’UE ha accettato di seguire con la Svizzera la via delle intese bilaterali, perché sperava che la Confederazione, dopo alcuni anni, si sarebbe decisa a compiere il passo dell’adesione. Non è stato così e oggi, probabilmente, i vertici dell’UE non sono più molto favorevoli a questa via, un po’ perché non vien applicata con nessun altro Stato e un po’ perché i problemi che sorgono nella trattativa con la Svizzera sono parecchi. Se l’iniziativa popolare dell’UDC dovesse venir accolta, sarebbe fuori posto attendere da Bruxelles una certa comprensione e il desiderio di mantenere il dialogo reciproco entro i confini tracciati fin ora.
Lo scenario che si aprirebbe allora non sarebbe certo auspicabile per l’economia svizzera e le conseguenze negative farebbero sentire il loro impatto per molto tempo. La nostra crescita economica ne risentirebbe. Il Prodotto interno lordo (PIL) diminuirebbe. Secondo le previsioni di vari istituti di ricerca, come per esempio il Bakbasel, nel 2035 il PIL sarebbe inferiore tra il –4,9% ed il –7,1%, rispetto allo scenario con i Bilaterali 1. L’attrattiva della piazza economica svizzera si ridurrebbe e la competitività di molte aziende elvetiche si indebolirebbe. Almeno una parte di loro si ritroverebbe senza il sostegno di un accordo bilaterale, alle prese con possibili nuove barriere commerciali e con l’erosione della certezza del diritto. Anche i nostri rapporti con l’UE ne risentirebbero, rapporti che hanno evidenziato una buona collaborazione durante i primi mesi della pandemia, soprattutto con i paesi confinanti con la Svizzera.
Queste nefaste conseguenze economiche non fanno parte delle preoccupazioni dei promotori dell’iniziativa per la limitazione. L’UDC concentra il suo discorso sulla libera circolazione delle persone ed elenca tutti gli inconvenienti che secondo lei ne derivano: treni troppo pieni, traffico troppo intenso, un numero troppo alto di bambini stranieri nelle scuole, occupazione dei posti di lavoro a scapito dei lavoratori indigeni, pressione sui salari e sulle assicurazioni sociali, aumento della disoccupazione, ecc. Le conseguenze sul piano economico dell’abolizione della libera circolazione vengono invece minimizzate. Una volta l’UDC sostiene che l’Europa ha interesse a mantenere gli accordi bilaterali e che quindi non li disdirà, un’altra volta minimizza l’importanza di questi accordi e aggiunge che possono essere sostituiti con un trattato di libero scambio. Recentemente, ha presentato anche uno studio dello «Europe Economics», un istituto di Londra, la capitale della Brexit, commissionato da una fondazione presieduta dall’ex presidente del partito, Toni Brunner. Secondo questo studio la libera circolazione delle persone avrebbe impoverito la Svizzera, provocando una consistente riduzione del potenziale PIL pro capite.
La campagna in vista della votazione è ormai entrata nel vivo e, come possiamo facilmente immaginare, i colpi non mancano. Fra un mese, se la libera circolazione delle persone verrà abolita, ci troveremo però di fronte ad una realtà composita che presenterà almeno due caratteristiche. Da un lato, assisteremo all’apertura di una fase d’incertezza nelle relazioni economiche e politiche con l’Unione europea. Una fase che rischia di essere lunga, di danneggiare il nostro paese e di isolarlo. Dall’altro, constateremo che il numero degli immigrati non diminuirà di molto, perché l’economia ha bisogno di questa manodopera estera. Ha bisogno di lavoratori qualificati che non trova nel paese e di lavoratori con livelli di qualifica bassa, per i posti di lavoro che gli svizzeri non vogliono più assumere.
Ha bisogno di impulsi esterni per far fronte sia ai cambiamenti strutturali che si annunciano, sia all’invecchiamento della popolazione. La crescita del numero della popolazione attiva è molto più lenta di quella del numero degli anziani. Nel 2015 la popolazione tra i 20 ed i 64 anni era di 5,2 milioni, quella con 65 anni e più era di 1,5 milioni. Le previsioni indicano che nel 2045 si passerà da 5,2 a 5,6 milioni e da 1,5 a 2,7 milioni. Il futuro ci porterà dunque molti cambiamenti e richiederà una gestione dell’immigrazione fondata sulla protezione dei lavoratori indigeni, attraverso le misure di accompagnamento, non sulla definizione di contingenti e sulla chiusura delle frontiere.