L’altra faccia della guerra in Ucraina è nell’Indo-Pacifico. Nel triangolo Cina-Russia-Stati Uniti, sono i mari cinesi il vero teatro centrale. Ne è riprova il fatto che il presidente Biden abbia sentito la necessità di un rapido giro nella regione per mobilitare i suoi alleati nel contenimento della Cina. Lo schema seguito finora dagli americani è infatti abbastanza chiaro: attrarre la Russia nella trappola ucraina, indebolirla, demoralizzarla e renderla più un peso che una risorsa per il vero nemico, quello cinese.
Contrariamente alle aspettative della Casa Bianca, il fronte anticinese emerge meno compatto di quanto si potesse immaginare dalla guerra ucraina. Colpisce soprattutto la posizione dell’India. Ormai da molti anni, almeno a partire dalla presidenza di George W. Bush, gli strateghi americani davano per scontato l’allineamento di Delhi con Washington. Intesa sostanziata sotto vari profili, dall’economia alla difesa. Tuttavia l’India non è disposta a rinunciare alla sua libertà di manovra, ovvero al bilanciamento tra potenze in competizione. Il rapporto storico che Delhi ha con Mosca, e soprattutto gli armamenti che acquista dai russi, sono un argomento troppo rilevante per essere scartato. Di qui anche il voto di astensione dell’India all’Assemblea generale delle Nazioni Unite sulla condanna dell’invasione russa.
Più confortanti le notizie sul fronte giapponese. Washington considera Tokyo – cui è legata da impegnativi trattati e sul cui territorio staziona il meglio delle sue truppe e dei suoi schieramenti aeronavali asiatici – alleato indispensabile nel contenimento della Cina. Tanto da non solo tollerare ma incentivare l’interpretazione che ormai da anni i governi giapponesi danno dell’articolo 9 della loro Costituzione (scritta più o meno interamente dagli americani). Ossia che il divieto ad avere un esercito consente di averne uno, e particolarmente potente. Al punto che oggi il Giappone è senz’altro, dopo gli Usa, la più importante potenza militare dell’Asia orientale. Probabilmente è anche dotato della bomba atomica, o in ogni caso è in grado di produrne in quantità dato il materiale di cui dispone e la conoscenza delle tecnologie necessarie a produrre gli ordigni definitivi.
Al doppio perno indo-nipponico Washington aggiunge, anche per via britannica, l’Australia. Qui siamo in piena Anglosfera. L’Australia partecipa con Regno Unito, Canada e Nuova Zelanda, sotto la guida degli Usa, al sistema dei «five eyes», la struttura tra gli alleati più stretti del «numero uno» che condividono le informazioni strategiche decisive. Il recente cambio di governo a Canberra non dovrebbe portare a mutamenti sostanziali nell’approccio australiano. Infine c’è un quinto membro che si aggiunge al quartetto (Quad) formalmente all’opera in funzione anticinese: il Regno Unito. Londra ha ormai scelto la strada dell’allineamento totale con gli Stati Uniti. Anzi, tiene a stare sempre un passo più avanti del suo riferimento transatlantico, come conferma anche il caso ucraino.
Forse l’aspetto più rilevante del viaggio del presidente americano è stata la scelta di rispondere con un secco «sì» alla domanda di un giornalista sulla disponibilità degli Usa a difendere militarmente Taiwan. Se non una vera e formale alleanza con Taipei, poco ci manca. Non a caso il monosillabo di Biden ha provocato una dura reazione cinese. E anche, come ormai prassi, la reinterpretazione delle parole del presidente da parte delle sue strutture di comunicazione. Non si tratta solo di correggere la tendenza a straparlare che da sempre distingue Biden, ma qualcosa di più profondo. Dentro all’amministrazione e ai laboratori strategici americani è aperta una discussione animata sull’approccio da tenere nei confronti della Cina, anche in conseguenza della guerra in Ucraina. Lo testimonia ad esempio il fatto che nella comunicazione ufficiale del dipartimento di Stato sia stata prima abrogata poi reintegrata una piccola frase riguardo al mantenimento della politica della «Cina unica», dunque al non riconoscimento di Taiwan come stato indipendente. Con ciò si intende la circonvoluzione diplomatica che da mezzo secolo consente ad americani e cinesi di far finta di convergere sull’esistenza di un solo rappresentante della Cina, Pechino.
Ma ormai, al di là delle sfumature semantiche, è del tutto evidente che gli Stati Uniti si preparano allo scontro con la Cina su Taiwan. Secondo alcuni esperti del Pentagono è probabile che la guerra avvenga intorno al 2030. Al Pentagono si studiano gli scenari bellici e le possibili reazioni americane a un attacco di Pechino contro Taipei. Perché è ormai acclarato che Washington non potrebbe assistere passivamente all’aggressione. Tanto che sull’isola contesa la cauta presenza militare americana comincia a essere percepibile. Di questo passo è probabile che nei prossimi anni assisteremo all’installazione sul suolo taiwanese di vere e proprie basi a stelle e strisce. Potrebbe essere questa la scintilla capace di incendiare la regione. Molto, ma molto peggio del conflitto in Ucraina. Come si vede, chi pensava che la guerra in Ucraina potesse essere contenuta nel perimetro dei combattimenti deve ricredersi. Non è (ancora?) una guerra mondiale, ma è una guerra in Europa che si riflette in tutto il mondo.