La trappola del debito cinese

Lo Sri Lanka è allo stremo: mancano carburanti, cibo e medicinali. Dietro questo disastro annunciato c’è lo zampino del Dragone
/ 25.07.2022
di Francesca Marino

Ranil Wickremesinghe, classe 1949, è il nuovo presidente dello Sri Lanka, eletto tra polemiche e proteste di piazza il 20 luglio. I maligni direbbero che Wickremesinghe, «il vecchio che avanza», è finalmente riuscito a farsi eleggere presidente: dopo essere stato per sei volte premier e dopo aver perso per due volte le elezioni presidenziali. Wickremesinghe, nominato premier un paio di mesi fa, era stato eletto presidente ad interim lo scorso 15 luglio, un paio di giorni dopo che il leader in carica Gotabaya Rajapaksa, incapace di fronteggiare ormai le proteste di piazza, era fuggito dal paese. Rajapaksa, volato prima alle Maldive e poi a Singapore dopo che centinaia di persone avevano occupato la sede della televisione di Stato e attaccato il palazzo presidenziale, si era dimesso ufficialmente qualche giorno dopo. Lasciando nelle mani del suo primo ministro, diventato presidente ad interim, la patata bollente: Wickremesinghe aveva dichiarato lo stato di emergenza e riportato a casa i manifestanti, ma per poco. La gente è nuovamente scesa in piazza per protestare contro l’elezione di un presidente che ritiene «illegittimo» e che accusa di essere un fantoccio nelle mani del partito di maggioranza e della potente dinastia politica dei Rajapaksa.

«Vedremo come si comporta», hanno dichiarato alcune delle persone scese in piazza. «Se non riceviamo in tempi brevi cibo o medicine saremo di nuovo per strada a protestare». L’ex-presidente Rajapaksa e i suoi familiari, che occupano da anni posizioni chiave sulla scena politica di Colombo, sono difatti accusati di aver portato, letteralmente, il paese alla bancarotta. Da mesi ormai manca il cibo, il carburante è quasi esaurito, non ci sono medicinali: e quel poco che si trova ancora sul mercato è così costoso da rendere impossibile alla maggioranza delle persone qualunque tipo di acquisto. Non c’è gas, nemmeno per cucinare, e i prezzi dei generi alimentari di prima necessità hanno ormai raggiunto vette stratosferiche. Il problema, ridotto all’osso, è che lo Sri Lanka dipende quasi completamente dalle importazioni estere per quanto riguarda il fabbisogno di generi alimentari, carburante e che, al momento, non dispone quasi più di riserve di moneta estera per pagare le importazioni suddette.

Anche la pandemiaha colpito l’economiadi Colombo, azzerando una delle principali voci attive della bilancia commerciale del paese: il turismo

Rajapaksa, per spiegare il disastro, se la prende con la pandemia che ha bloccato per due anni i viaggi azzerando una delle principali voci attive della bilancia commerciale di Colombo: il turismo. Vero, ma non completamente. Perché nel caso dello Sri Lanka si tratta, e da molti anni ormai, di un disastro annunciato. Tra il 2005 e il 2010, secondo le stime di alcuni economisti, la Cina ha prestato allo Sri Lanka circa 1,4 miliardi di dollari per costruire infrastrutture: infischiandosi, dicono, di quisquilie come la fattibilità dei progetti o l’impatto sociale e ambientale dei progetti. Tra il 2011 e il 2015, quando lo Sri Lanka doveva rimborsare le prime tranche dei prestiti, la Cina ha rinegoziato i debiti di Colombo e ha versato nelle casse dello Sri Lanka altri 3,1 milioni di dollari. In un paese che ha avuto bisogno, dal 1965, di ben sedici salvataggi da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi), i soldi cinesi sembravano un dono del cielo, un’ancora di salvezza sciolta, oltretutto, dai duri vincoli delle riforme imposte dall’Fmi. Ma, come tutti sanno, Babbo Natale purtroppo non esiste.

La costruzione del porto di Hambantota, nello Sri Lanka meridionale, si è rivelata un gigantesco fallimento ed è diventata, per gli economisti, uno dei casi da manuale per spiegare come funziona la cosiddetta trappola del debito cinese. Il porto non si è mai nemmeno avvicinato agli obiettivi stabiliti dalle proiezioni di traffico su cui si basava. E la promessa che avrebbe generato oltre 100’000 posti di lavoro si è rivelata una chimera. Trovandosi quasi subito in cattive acque, visti i ricavi immediati quasi nulli a fronte dell’investimento, il governo dello Sri Lanka si è trovato nell’impossibilità di ripagare il debito. A quel punto Pechino ha chiesto il porto come garanzia del prestito, costringendo il governo ad affidarne la gestione (e i ricavi) per 99 anni alla China harbor engineering company in cambio di 1,1 miliardi di dollari. Il governo ha utilizzato quei soldi, fino al suo recente fallimento, per pagare i debiti alla Cina e ad altri prestatori. E si trattava soltanto dell’inizio. Nel frattempo, il rapporto tra debito e prodotto interno lordo è salito dal 36 per cento nel 2010 al 94 per cento nel 2015 ed è diventato di oltre il 110 per cento l’anno scorso. E le riserve di moneta estera del paese si sono di fatto azzerate, complice anche la mancanza di turisti causata dal Coronavirus.

Morale della favola, grazie anche alle politiche scriteriate messe in atto dai Rajapaksa, Colombo ha dovuto dichiarare bancarotta. Wickremesinghe dovrebbe riprendere i colloqui, iniziati con il governo dell’ex-presidente, per negoziare l’ennesimo salvataggio da parte dell’Fmi. Nel breve termine l’obiettivo è far fronte alla mancanza di carburanti, cibo e altri beni generata dai tagli fiscali che hanno privato lo Stato di ingenti entrate. Nel lungo termine: riformare politiche e procedure. D’altra parte, il caso dello Sri Lanka ha generato nella regione un allarme non da poco, per diversi motivi.

Non sono pochi difatti i paesi che si potrebbero ritrovare, in tempi più o meno brevi, nella stessa situazione di Colombo. Per citare i primi sulla lista: il Laos, le Maldive, il Bangladesh ma, soprattutto, il Pakistan. Che potrebbe ritrovarsi, tra pochissimo, in condizioni ancora peggiori dello Sri Lanka. La trappola del debito funziona infatti allo stesso modo in tutti i paesi che si sono incautamente (o colpevolmente) fidati dei «doni» cinesi. E i segnali di avviso ci sono già tutti.