La Tenochtitlan conquistata

Cinquecento anni fa, il 13 agosto del 1521, gli spagnoli entrarono vittoriosi nella capitale azteca cambiando per sempre la storia delle Americhe. Oggi il Messico è ancora alla ricerca della sua identità
/ 09.08.2021
di Jonas Marti

Nel Museo di antropologia di Città del Messico c’è uno straordinario dipinto che mostra l’antica capitale azteca, Tenochtitlan, in tutto il suo surreale splendore. Osservandone i dettagli, è facile capire l’immenso stupore che provarono i conquistadores spagnoli quando la videro per la prima volta. Uno di loro, l’ufficiale Bernal Diaz del Castillo annotò: «Non sapevamo più cosa dire, né se quello che vedevamo davanti a noi fosse reale. Sembrava una leggenda incantata». Tenochtitlan era una vera e propria meraviglia, immensa Venezia delle Americhe, costruita su isole artificiali in mezzo al lago Texcoco, pullulante di canoe, giardini, bianchi palazzi di dimensioni sconvolgenti, il gigantesco Templo mayor a forma piramidale che si stagliava su ogni altro edificio, e poi le vaste piazze, i mercati dai colori abbaglianti, le ardite strade sospese sull’acqua, larghe tanto da «permettere il passaggio di otto cavalieri affiancati».

Una capitale affollatissima con oltre duecentomila abitanti, cifra eguagliata allora in Europa solo da Parigi, Napoli e Costantinopoli. Tenochtitlan: una città fantastica che sembrava essere uscita da un altro mondo, e che anzi di un altro mondo, del Nuovo mondo, lo era davvero. Per conquistarla il condottiero Hernán Cortés non avrebbe potuto scegliere momento migliore. L’imperatore azteco Montezuma aveva appena assistito al prodigio nefasto di una cometa e scambiò l’astuto conquistador per Quetzalcoatl, il dio serpente piumato che, per un caso beffardo, i testi sacri descrivevano proprio come barbuto e dalla pelle bianca e ne annunciavano il ritorno da Oriente, dal mare, proprio da dove erano approdati i primi europei. Dopo un assedio durato quattro mesi, il 13 agosto del 1521 Tenochtitlan cadde. Quell’incredibile primo incontro tra due mondi umani fino ad allora totalmente separati – «l’incontro più straordinario della nostra storia» lo ha definito, a ragione, il filosofo Tzvetan Todorov – finì con l’uccisione di centinaia di migliaia di aztechi e la distruzione totale della loro capitale. Sulle sue macerie venne costruita quella che oggi è una delle metropoli più grandi del mondo, Città del Messico.

Cinquecento anni dopo della Gran Tenochtitlan non resta più nulla. Il magma di cemento abitato del Monstruo, il mostro, come i messicani chiamano la gigantesca capitale, si è insinuato ovunque, coprendo persino l’antico lago. Nella piazza principale, lo Zócalo, improbabili ballerini intrattengono i turisti con altrettanto improbabili corone di piume azteche, trionfo del folklore kitsch. Ma poco distante, accanto alla cattedrale, le pietre di tezontle, la roccia vulcanica dal colore rosso scuro del Templo mayor – scoperto per caso nel 1978 durante la costruzione della metropolitana – continuano a sussurrare la travagliata storia del Messico. Un Paese meticcio per eccellenza, nato nel difficile ma necessario abbraccio tra vittime e carnefici. Oggi il 62% dei messicani è mestizo, risultato dell’unione tra i conquistadores spagnoli e i numerosi gruppi etnici amerindi. «Non fu sconfitta e non fu vittoria, ma la dolorosa nascita del popolo messicano», recita la lapide di Tlatelolco, dove si combatté l’ultima battaglia. Del resto basta entrare in una cantina, ordinare una birra e domandare al vicino di bancone se si senta più europeo o più indigeno, e la risposta sarà sempre un sorriso accompagnato dalle parole «somos mexicanos».

Però l’identità messicana, costruita a tavolino nell’Ottocento e fondata sull’esaltazione del meticciato, come tutte le identità non è definitiva e continua a nutrirsi di nuove mitologie storiche. In vista del cinquecentesimo della caduta di Tenochtitlan, la municipalità di Città del Messico ha organizzato numerosi eventi, con un fil rouge che la sindaca Claudia Sheinbaum ha descritto molto chiaramente: «Il 13 agosto commemoreremo i 500 anni di resistenza dei nostri popoli nativi». La volontà dichiarata è quella di «demistificare la conquista spagnola» e rafforzare la narrativa indigena, anche attraverso una cancel culture che vuole stravolgere la toponomastica cittadina. Qualche mese fa quella che per secoli si era chiamata Plaza de la noche triste, in ricordo della notte in cui gli spagnoli furono decimati da un’insurrezione azteca, è stata ridenominata Plaza de la noche victoriosa. In questi giorni, invece, un viale dedicato a un conquistador ha cambiato nome e preso quello dell’antica capitale. Ma si va oltre: un recente sondaggio rivela che il 56 per cento dei chilangos, gli abitanti di Città del Messico, sarebbe favorevole a ribattezzare la propria città con l’antico nome azteco di Tenochtitlan. Una narrativa revanscista, in linea con quella del presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, che due anni fa aveva chiesto al re di Spagna Felipe VI e a papa Francesco di scusarsi con gli indigeni per la conquista dell’odierno Messico.

Molti messicani pensano che le ferite della conquista spagnola siano ancora aperte. «La caduta di Tenochtitlan è avvenuta 500 anni fa, ma le sanguinose guerre di conquista sono durate molto di più e l’instaurazione dell’ordine coloniale continua ancora oggi, attivo, capitalista, estrattivo, occidentalizzante», ha scritto qualche settimana fa su un giornale Yásnaya Aguilar, attivista per i diritti linguistici delle minoranze amerinde. E i dati le danno ragione. Dopo secoli di emarginazione e sfruttamento, ancora oggi la maggior parte dei 12 milioni di indigeni «puri» – il 10 per cento della popolazione, diviso in 68 gruppi etnici – vive in povertà, ha un grado di istruzione inferiore e maggiori difficoltà ad accedere al sistema sanitario. Altro che celebrazioni della «resistenza indigena». «Lo Stato non fa niente di niente per loro. Sembra che voglia tenerli in queste condizioni per controllarli meglio», confida un insospettabile ristoratore della classe media. Negli scorsi decenni alcune rivolte locali, come quella maya in Chiapas – terra ricchissima ma ferocemente sfruttata dai latifondisti – hanno cercato giustizia per le popolazioni autoctone, ma la repressione del Governo ancora oggi non si è fermata. Mentre la minoranza bianca di origini europee occupa ancora saldamente le posizioni privilegiate della struttura politica ed economica, perpetuando così in un qualche modo il sistema di caste dell’epoca coloniale.

Intanto però a Città del Messico, accanto ai resti del Templo mayor, sulla facciata di un edificio campeggia una grande scritta a caratteri cubitali, un frammento dello scrittore Ignacio Ramirez, scritto nel 1861: «Da dove veniamo? Dove andiamo? Se ci impuntiamo ad essere aztechi puri, finiremo nel trionfo di una sola razza e nell’adornare con i teschi degli altri il tempio del Marte americano, se ci impegniamo ad essere spagnoli, precipiteremo nell’abisso della Reconquista». L’eterno dilemma delle Americhe, che ancora oggi, 500 anni dopo la caduta della favolosa Tenochtitlan, risuona forte nel colorato e polveroso Messico.