La tempesta sull’Africa

Guerra e fame - L’invasione russa dell’Ucraina, che ha comportato il crollo delle esportazioni di cereali, si somma alla siccità che colpisce nuovamente il continente nero, riducendo milioni di persone alla fame
/ 23.05.2022
di Pietro Veronese

Per la terza volta consecutiva, la stagione delle piogge è stata un disastro nel Corno d’Africa. La terra è rimasta all’asciutto, i semi non hanno germogliato e i raccolti sono andati in malora. Il bestiame è morto di sete. Interi villaggi si sono messi in marcia in cerca di aiuto. Da mesi, le organizzazioni umanitarie lanciano allarmi inascoltati. Una siccità così grave non si vedeva da quarant’anni e milioni di persone tra Etiopia, Kenya e Somalia – 15, forse 20, secondo un calcolo approssimativo – sono alla fame.

A questa situazione già critica si è aggiunto nelle ultime settimane il crollo delle esportazioni di cereali dall’Ucraina, per l’effetto combinato del blocco dei porti sul Mar Nero, operato dalla flotta militare russa, e dell’abbandono dei campi da parte della popolazione contadina messa in fuga dalle bombe e dai carri armati. Una tempesta perfetta e mortale si è addensata così qualche migliaio di chilometri a sud, sulla parte più fragile dell’Africa orientale: ma le opinioni pubbliche europee lo ignorano. Mentre l’informazione è battente e costante sul conflitto in Ucraina, essa tace su quanto accade nel resto nel mondo. Un sondaggio promosso dalla ong bitannica Christian Aid, di cui ci informa il “Guardian”, rivela che appena otto cittadini del Regno Unito su dieci sono consapevoli della situazione nel Corno d’Africa – mentre nove di quegli stessi dieci sanno tutto sulle battaglie in corso da Kiev a Mariupol. La situazione nel resto d’Europa non dev’essere migliore.

Quella contro la fame è solo la prima delle «guerre dimenticate» che l’indifferenza del mondo – o meglio, l’attenzione esclusiva alla guerra in Ucraina – sta condannando a esiti ancora più tragici. La solidarietà dovuta alle vittime del primo conflitto che si combatte in territorio europeo dal 1945 non è ovviamente in discussione. Resta il fatto che la quasi totalità delle risorse disponibili – finanziarie, ma anche emotive – è oggi dirottata verso Kiev e dintorni, a danno di tutto il resto. Non a caso le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie internazionali rivolgono appelli costanti ai governi, affinché non dimentichino altre zone di sofferenza e bisogno presenti nel mondo. La scomparsa di milioni di tonnellate di grano ucraino dal mercato cerealicolo globale sta causando un vertiginoso aumento dei prezzi alimentari. Ma quello che da noi è un rincaro della pasta, altrove significa fame. In Zimbabwe il costo della pagnotta è raddoppiato. In Egitto i fornai diminuiscono il peso della forma di pane piuttosto che aumentarne il prezzo. Il presidente ugandese invita i suoi concittadini ad accontentarsi della polenta di cassava. In Kenya molti hanno giù dovuto rinunciare al primo e più fondamentale degli alimenti. Nelle campagne, le famiglie mangiano il pollame perché non si trova più granoturco per il mangime. Questo non significa soltanto che la carestia è alle porte, ma anche che lo stesso ammontare di euro in aiuti è oggi in grado di comprare una minore quantità di farina e di mais, dunque di soccorrere meno persone. Stesso discorso vale per l’olio di semi, che comincia a scarseggiare anche nei nostri supermercati ed è tanto più insostituibile là dove non si conosce quello d’oliva.

Ma quella contro la fame è una guerra in senso soltanto metaforico – almeno nella speranza che l’acuta situazione di bisogno non si tramuti in rivolta, com’è accaduto di recente nello Sri Lanka. Molte, troppe, sono le guerre vere che si combattono in giro per il mondo, con il loro carico di bombe, morte, violenze inenarrabili contro la popolazione inerme, milioni di fuggiaschi, devastazioni, tracolli economici, vite spezzate, destini arenati nei campi profughi. Se ne contano al momento 34, Ucraina compresa. Alcune sono state al centro dell’attenzione pubblica negli anni recenti, come la Siria, l’Afghanistan, e oggi sono ignorate anche se niente affatto finite. Una, la guerra civile dello Yemen, è vicinissima al Corno d’Africa, seppur separata dallo stretto braccio di mare del Mar Rosso: dura da sette anni, anche lì si muore di fame, specie i bambini, e vi è coinvolto con feroci bombardamenti aerei un alleato dell’Occidente, l’Arabia Saudita, dunque non se ne parla. Così come della maggior parte di questi conflitti non sappiamo nemmeno che esistono. I più numerosi sono in Africa: 12 i Paesi in guerra, in 7 aree di crisi (cifre che prendiamo dall’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, atlanteguerre.it).

Che sappiamo di quanto succede nel nord del Mozambico? Eppure, nella spaventosa situazione creata dalla rivolta islamista in quella regione che si è scoperta ricchissima di gas naturale, sono oggi presenti le divise di ben 24 eserciti. Oltre 2.000 soldati e poliziotti ruandesi, una missione di addestramento Usa, osservatori militari dall’Uganda, specialisti da undici Paesi europei e truppe da dieci nazioni africane vicine. Il conflitto, che era stato dato avventatamente per risolto, continua, con numerosi attacchi, sparatorie e vittime in questo mese di maggio.

E poi l’est della Repubblica Democratica del Congo, preda di milizie e bande armate in quello che è il più longevo dei conflitti africani. La feroce guerra civile della Repubblica Centrafricana, dove è presente una forza di pace Onu, come del resto in Congo (quest’ultima la più grande al mondo). E l’Etiopia, che vede coinvolta anche l’Eritrea; il Sud Sudan, la Libia, la Somalia, il Ciad, il Burundi; e Mali, Somalia, Burkina Faso, Niger, Nigeria, ciascuno alle prese con la propria insurrezione islamista variamente collegata all’Isis o ad Al Qaeda. Eccetera. Tragedie di cui sanno soltanto gli specialisti e le organizzazioni umanitarie, che si sforzano invano di rompere il muro del silenzio. Per questo il presidente ruandese Paul Kagame si è sentito in dovere di dichiarare di recente che «il mondo è retto da tre grandi sistemi. Il primo è la democrazia. Il secondo è l’autocrazia. E il terzo è l’ipocrisia». Difficile dargli torto.