La svolta della tassa minima globale

L’accordo raggiunto al G7 su un prelievo di almeno il 15 per cento sui profitti delle multinazionali rappresenta un successo atlantico che premia il metodo di Joe Biden. Rimangono però diversi punti interrogativi
/ 14.06.2021
di Federico Rampini

L’accordo di principio del G7 sulla global minimum tax (tassa minima globale) è un successo atlantico, che premia il metodo di Joe Biden. Al suo primo viaggio in Europa il presidente americano già esibisce i vantaggi concreti di una politica estera attenta alle alleanze e rispettosa dei Paesi amici. Armonizzare le tasse sulle multinazionali, chiudere gli spazi dell’elusione legale, è essenziale per le strategie economiche di Biden e anche di molti alleati europei. La «concorrenza al ribasso» tra Stati per attirare i grossi investitori in casa propria, ha regalato privilegi esorbitanti ai «grandi» del capitalismo, accentuando le disuguaglianze sociali. Il fisco si è accanito sul ceto medio per rivalersi dell’imponibile perduto altrove.

Adesso Biden ha bisogno di recuperare entrate per finanziare i piani avveniristici del suo New Deal, dalla modernizzazione delle infrastrutture alla gara tecnologica con la Cina, dall’equità sociale alla lotta contro la crisi climatica. Il presidente vuole «giocarsi» l’accordo del G7 con l’opposizione repubblicana al Congresso per tentare di smussare le resistenze a un aumento delle tasse sulle imprese. Quel 15 per cento di prelievo minimo ad alcuni sembra troppo poco, e lo è davvero se si paragona con le aliquote dell’imposta sul reddito delle persone fisiche nel caso dei ceti medi o delle piccole imprese. Ma è un progresso enorme rispetto alla realtà attuale.

Biden ha già offerto ai repubblicani di sacrificare quell’aliquota del 28 per cento sui profitti delle imprese che aveva annunciato nei suoi programmi. La realtà è che le aliquote nominali di cui si discute sono solo teoriche. Tra sgravi, deduzioni, detrazioni, agevolazioni, il vero carico fiscale delle grandi imprese americane è dell’ordine dell’8 per cento. Quelle che parcheggiano profitti in paradisi esteri come l’Irlanda pagano dal 2 per cento in giù. Se s’introducesse davvero un «pavimento» minimo condiviso del 15 per cento, gli Stati vedrebbero un recupero di gettito dell’ordine di centinaia di miliardi.

Sul piano politico il metodo Biden rappresenta un rilancio delle democrazie. L’accordo è maturato tra i Paesi occidentali più il Giappone, che condividono sistemi politici e valori. Andrà poi condiviso in seno al G20 che rappresenta l’80 per cento del Pil mondiale, dove sono rappresentate anche le maggiori economie emergenti, e tanti regimi autoritari. Sarà un test interessante, vedere se la Cina vorrà sfilarsi e diventare la nuova capofila dell’elusione per le grandi imprese. Ha già un paradiso fiscale nell’isola di Hong Kong e, in generale, anche sul resto del suo territorio ha una pressione delle imposte inferiore ai Paesi occidentali.
Per non celebrare prematuramente la svolta, bisogna ricordare che le leggi sulle imposte restano di competenza nazionale, vanno ratificate dai Parlamenti, vanno applicate dalle Amministrazioni di ciascun Paese. L’Unione europea dovrà riuscire a disciplinare i suoi paradisi (o pirati) interni come Olanda, Irlanda, Lussemburgo, Ungheria, Malta e Cipro.

Stati uniti e Ue dovranno saper estendere la stessa armonia alla digital tax (imposta applicata a priori sui redditi delle multinazionali operanti nel settore digitale o che facciano comunque ricorso a servizi digitali nello svolgimento delle loro mansioni) dove le asimmetrie sono perfino più accentuate: Big tech è concentrato nella Silicon Valley o a Shanghai, l’Europa è stata colonizzata dai colossi digitali americani o cinesi. Fra le due sponde dell’Atlantico devono maturare regole comuni su come attribuire geograficamente la base imponibile di gruppi come Amazon, Google, Facebook, che finora hanno avuto troppe libertà nell’assegnare fatturati e profitti ai territori dove ci sono meno tasse.

Un rischio lo corrono anche i Governi progressisti come quello di Biden. Una volta affermato il principio che i colossi transnazionali devono pagare di più, e avendo così agitato il bastone, viene sempre il momento della carota. Gli stessi big del capitalismo si vedono offrire sgravi e deduzioni se investono nelle energie rinnovabili, o nella giustizia sociale e razziale. L’elusione combattuta ufficialmente viene ripristinata in tanti modi e le lobby sanno negoziare bene queste partite. Purtroppo l’alleanza fra l’establishment capitalistico americano e il partito democratico è una realtà da molti anni, non bisogna illudersi che di colpo le aziende multinazionali abbiano perduto ogni rappresentanza politica su quel fronte. L’escamotage sarà proprio quello di convogliare investimenti «virtuosi» che piacciono alla sinistra per negoziare nuovi trattamenti di favore. Resta intatta l’importanza dell’accordo al G7, per dimostrare che l’Occidente – insieme con il Giappone – può ancora avere un ruolo propulsivo per stabilire regole del gioco mondiali più giuste.

Comunque le obiezioni alla global minimum tax continueranno ad affollare il dibattito pubblico. C’è una corrente radicale, sempre ben rappresentata nei media, secondo la quale questo accordo al G7 sarebbe addirittura un «regalo» ai veri paradisi fiscali. Secondo questa tesi un’armonizzazione delle tasse decisa tra Paesi occidentali finirebbe per spingere ancora di più le mega-imprese verso sedi esotiche. Ho citato Hong Kong ma ci sono anche diverse isole nei Caraibi, Caimane e British Virgin Island per esempio, oppure Panama.
Ma il grosso dell’elusione fiscale, almeno per quanto riguarda i super-colossi del capitalismo americano, avviene trasferendo profitti in sedi come l’Irlanda, dove queste aziende hanno una presenza reale: uffici e dipendenti. È questo che ha consentito a gruppi come Apple e Amazon di minimizzare il prelievo senza che l’Internal revenue service o Irs (l’Agenzia delle entrate del fisco statunitense) potesse obiettare. Sarebbe molto più difficile per loro fare lo stesso gioco con un’isola caraibica. L’Irs avrebbe strumenti legali più potenti per contrastare una fuga verso sedi sociali puramente fittizie.

Un altro tema è balzato in primo piano con la rivelazione che molti miliardari – grossi nomi come Jeff Bezos di Amazon, Elon Musk e Warren Buffett – pagano tasse irrisorie. Qui si tratta di imposte sul reddito delle persone fisiche, non della tassa sugli utili societari. È uno scandalo antico: gli straricchi hanno sempre una lunghezza di anticipo sulle autorità fiscali, la fantasia creativa dei loro consulenti è quasi insuperabile. Però sarebbe già un passo avanti colpire meglio la fonte principale della loro ricchezza, che è la distribuzione di dividendi estratti dai profitti delle grandi imprese quotate in Borsa. In questo senso, almeno indirettamente, la global minimum tax andrebbe a togliere qualche cosa anche ai miliardari che sono gli azionisti delle multinazionali. Bisogna evitare il massimalismo, «o tutto o niente». Il progresso si misura dalla capacità di trovare soluzioni parziali, incomplete e imperfette, non dall’aspirazione a rivoluzioni totali, rigeneratrici e purificatrici. Quelle appartengono al mondo dei sogni e talvolta si trasformano in incubi.