La stretta sulle attrici

Afghanistan, dove si impone una scelta: una vita senz’arte né cultura o la morte
/ 06.12.2021
di Francesca Marino

«Non si tratta di limitazioni alla libertà d’espressione ma di pochi, semplici principi» ha di recente dichiarato, per bocca di un suo portavoce, il Ministero per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù dell’Afghanistan. Paese che – lo ricordiamo – dal 15 agosto è tornato in mano ai talebani. E, sempre il famigerato Ministero, ha ribadito che: «Si tratta soltanto di consigli e delle nostre aspettative». Materia del contendere un decreto in 8 punti emanato dal Ministero che ha tristemente preso il posto a Kabul, sia fisicamente che moralmente, del Ministero per le donne. Il primo clamoroso provvedimento riguarda la presenza delle donne sulla scena: vietate tutte le trasmissioni tv e i film in cui appaiono attrici. Il che significa, tradotto, vietati film e soap opera in toto. E anche molti documentari. Le giornaliste, inoltre, sono obbligate a indossare il velo. Non è ancora chiaro se saranno costrette a parlare con tutto il volto coperto o se è sufficiente coprire il capo, ma si tratta di distinzioni di lana caprina, dicono. Sono vietati anche programmi comici e di intrattenimento che possono causare umiliazione o essere ritenuti insultanti (da chi e per chi non è dato sapere) e anche qualunque genere di programma che sia offensivo per la religione o per la dignità umana (di chi, e per quale religione, non viene specificato). Soprattutto è vietatissimo mandare in onda programmi televisivi o serial in cui sono raffigurati Maometto e i suoi compagni (le mogli sono ovviamente incluse nella sezione «vietate le attrici»), e anche se si manda in onda l’equivalente talebano de Il ponte sul fiume Kwai, bisogna fare attenzione che gli uomini non siano in abbigliamento indecente o, Dio non voglia, a torso nudo.

Praticamente il Ministero preposto a vegliare sulla moralità degli afgani (e soprattutto delle afgane), dopo avere abolito la musica e fatto a pezzi strumenti musicali e anche un bel po’ di musicisti, si prende cura adesso degli attori e delle attrici. Facendo un tuffo nel passato di qualche migliaio di anni, quando gli attori non venivano seppelliti in terra consacrata e le attrici erano considerate un po’ meno che prostitute o, forse, auspicando il ritorno dei bei tempi del teatro elisabettiano quando a recitare Giulietta erano vezzosi giovanetti appena adolescenti.

Il fatto che non ci siano state proteste fornisce la misura di quanto terrorizzata sia la popolazione afgana: non perché, come reporter di prevalenza pakistani si affannano a sostenere, gli afgani siano d’accordo con i talebani. Anzi. Negli ultimi anni le telenovelas sono diventate, in Afghanistan, un vero e proprio fenomeno di costume. Le strade di alcune città e certi villaggi, all’ora stabilita, si svuotavano di colpo come durante il coprifuoco. E anche insospettabili e seriosi uomini d’affari cercavano di svicolare o di accampare impegni improrogabili per non perdere la puntata della soap preferita, turca o indiana che fosse. Pian piano i talebani stanno disilludendo anche i fan più accaniti della nuova e più moderna versione della banda di fanatici assassini di un tempo. Mentre qualcuno, di prevalenza Pakistan e Cina, continua a ripetere il mantra del «dategli credito, dategli tempo», il tempo in Afghanistan si torce su se stesso per tornare alla fine degli anni Novanta.

La maggior parte delle ragazze afgane è ancora chiusa in casa, priva della possibilità di continuare ad avere un’istruzione. La «misura temporanea per motivi di sicurezza» invocata dai talebani, la volta scorsa è durata per tutto il tempo del loro Governo. Semplicemente, nell’Afghanistan del medioevo di ritorno le donne non sono al sicuro. Punto. Quelle che possono sono scappate: atlete, giornaliste, registe, cantanti e attrici. Poliziotte e giudici, funzionarie amministrative. Molte sono state ammazzate appena le telecamere si sono spente, altre si nascondono, braccate da figuri più o meno noti. Secondo Reporters sans frontiers, soltanto 76 delle 700 giornaliste attive a Kabul prima di agosto sono ancora al lavoro. E meno di una decina nelle altre città. Non che i giornalisti maschi se la passino meglio: quelli che, seguendo gli inviti degli stessi talebani fatti a favore di telecamere americane «le critiche aiutano a migliorarci», hanno provato a criticare il Governo ne portano ancora addosso i segni. Quelli rimasti vivi, ovviamente. D’altra parte, come ai bei tempi dei taliban 1.0, agli uomini adesso è vietato radere la barba e avere tagli di capelli troppo alla moda. Molti ragazzi, ai tempi di Titanic con Leonardo Di Caprio, si sono ritrovati con la testa rasata perché avevano copiato il taglio di capelli del romantico e sfortunato Jack.

Intanto, esattamente come negli anni Novanta, il meglio della jihad del sudest asiatico si sta radunando in Afghanistan, Al Qaeda compresa. Molti membri di Al Qaeda, tanto per tenere fede agli accordi di Doha, sono stati fatti governatori di provincie varie. I campi di addestramento sono stati dati in franchising ai pakistani della Jaish-i-Mohammed e della Lashkar-i-Toiba, gruppi meno noti da questa parte del mondo ma molto più pericolosi dei talebani, e lavorano a pieno ritmo. Armi e mezzi abbandonati dagli americani viaggiano dall’altra parte del confine, verso il Pakistan. Che, essendo il creatore dei talebani, si sta nemmeno tanto stranamente talibanizzando a sua volta. Faceva un po’ impressione, di recente, vedere a Lahore, una roccaforte liberal e intellettuale, come la conferenza in ricordo dell’avvocata dei diritti umani Asma Jehangir fosse piena di donne con il capo velato. Asma non avrebbe apprezzato. Ma Asma Jehangir è morta, e curiosamente, a parlare in suo ricordo, erano quasi esclusivamente uomini. Segno dei tempi anche questo.

«Non si tratta di limitazioni alla libertà d’espressione», ribadiscono i talebani, «ma di semplici editti religiosi». Emanati da un’autorità politica che pretende però di avere il controllo delle coscienze, della morale e della fede dei cittadini. Che a loro piaccia o no, che lo vogliano o no. Cittadini che ora, anche nel chiuso delle loro case, avranno una sola possibilità: adattarsi a una vita senza musica, risate, istruzione, arte e cinema. O morire.