La spallata dei Cinquestelle mentre Meloni avanza

Mario Draghi si dimette nonostante le molte emergenze che affliggono l’Italia. Fra chi ha sempre invocato le elezioni anticipate Fratelli d’Italia, formazione che nei sondaggi contende il primo posto al Pd
/ 25.07.2022
di Alfredo Venturi

Le anomalie della politica hanno prodotto la più intempestiva delle crisi di governo, le cui incerte prospettive allarmano non solo l’Italia ma anche l’Europa e il mondo. Mario Draghi si è dovuto dimettere nonostante le molte emergenze che affliggono il Paese: la guerra in Ucraina, l’energia, l’inflazione, la pandemia. Ma nella politica italiana, forse nella politica tout court, la conservazione del potere prevale sulla sua gestione, e dunque non poteva andare altrimenti. Lo sgambetto al governo viene da un partito che del governo fa parte, la formazione vincitrice delle ultime elezioni che dopo il trionfo del 2018 è andata via via dissolvendosi. Al culmine delle sue fortune, il Movimento 5 Stelle era stato scelto da un terzo dei votanti e aveva spedito in parlamento 227 deputati e 112 senatori.

Fu la consacrazione del più atipico fra i partiti italiani, che il fondatore Beppe Grillo aveva lanciato sul fertile terreno della disaffezione politica. Moltissimi italiani non ne potevano più dei riti parlamentari stanchi e ripetitivi, dei dirigenti alla ricerca di una facile popolarità nei talk show, soprattutto della deludente gestione amministrativa, subordinata alla ricerca del consenso prima ancora che all’interesse nazionale. Per questo nella primavera del 2018, confermando e rafforzando una tendenza in costante crescita, undici milioni di elettori avevano espresso questo fastidio votando per il Movimento che prometteva di svecchiare la politica.

Ma così non è stato, nulla è cambiato sui colli fatali di Roma dopo il terremoto grillino. Anzi, proprio nella capitale l’amministrazione varata dal successo dei Cinquestelle offre di sé una prova non proprio entusiasmante. Nella metropoli sommersa dai rifiuti la sindaca Virginia Raggi diventa rapidamente impopolare e gli elettori le negano il reincarico. Lo stesso accade in molti altri comuni conquistati dal Movimento. È chiaro a questo punto che il bottino di quella straordinaria esperienza elettorale non può essere difeso. I sondaggi sempre meno favorevoli rivelano un declino inarrestabile determinando la grande diaspora. Molti deputati e senatori bussano alla porta del gruppo misto e di altri gruppi, di sinistra come di destra: non sosteneva forse il cofondatore Gianroberto Casaleggio che queste categorie appartengono al passato?

Finisce che il parlamento, con la rappresentanza sovradimensionata dei Cinquestelle, non riflette più gli umori e le aspettative dell’opinione pubblica. Invano i grillini asserragliati nella loro fortezza parlamentare fanno notare che il mandato dura cinque anni: troppo marcata è la distanza fra quel trionfale 32,7 per cento e le quote costantemente calanti registrate dalle indagini demoscopiche. L’ex capo del governo Giuseppe Conte, al quale Grillo ha affidato la presidenza del Movimento poi ratificata dalla base con il voto telematico, prova a domare quella bestia impazzita, che si agita con reazioni scomposte assillata dal terrore del voto.

Ciò che resta del Movimento si divide, come vuole un frequentatissimo luogo comune, in falchi e colombe. I primi vogliono dare una spallata al governo Draghi che hanno fin qui sostenuto, convinti che un’azione energicamente assertiva potrà limitare i danni elettorali, inevitabile effetto della perdita di popolarità. I secondi, che comprendono i ministri grillini, hanno un approccio più cauto: in fondo nonostante le defezioni sono ancora numerosi in parlamento, non conviene usare questa posizione di forza fino alla scadenza naturale della legislatura? Dopo molte esitazioni Conte sceglie invece la linea dura: i senatori Cinquestelle non partecipano al voto di fiducia su un nevralgico decreto per la gestione dell’emergenza economica. Si apre così una crisi che il mondo non capisce, e nemmeno gli italiani.

Il presidente Sergio Mattarella respinge le dimissioni e rimanda Draghi in parlamento a cercare una maggioranza. Lui ha una gran voglia di andarsene ma sta al gioco. Al senato i gruppi di centro-destra della maggioranza, la Lega di Matteo Salvini e Forza Italia di Silvio Berlusconi, chiedono discontinuità ma Draghi non accetta: non vuole sconfessare l’operato del suo governo. È il colpo di grazia, ormai la crisi si avvita su se stessa mentre Forza Italia registra le dimissioni di alcuni autorevoli esponenti che accusano Berlusconi si essersi piegato al populismo di Salvini. La vicenda assume i contorni del tifo da stadio: voto subito sì, voto subito no. Prevale l’ipotesi che si andrà alle urne a settembre.

Fra chi ha sempre invocato le elezioni anticipate (del resto di pochi mesi, la legislatura scadrebbe la prossima primavera) c’è una formazione erede della destra neofascista, i Fratelli d’Italia, che nei sondaggi contende la prima posizione al Partito democratico di Enrico Letta. È guidata da Giorgia Meloni che aspira a infrangere il tabù maschile di Palazzo Chigi: se l’esito del voto confermasse i sondaggi, potrebbe essere la prima donna a guidare un governo italiano. Nelle fortune dei FdI, che negli anni dell’unità nazionale ha svolto il ruolo di solitario oppositore, si annida una singolarità: il suo successo è dovuto in qualche misura a motivazioni analoghe a quelle di chi votava i Cinquestelle. Anche Meloni pesca nelle acque stagnanti della disaffezione: fra le ragioni dei consensi che alimentano le sue ambizioni figura, accanto all’impronta conservatrice e a qualche serpeggiante nostalgia mussoliniana, il desiderio di voltar pagina di fronte all’inerzia della politica.

Sono dunque al centro della scena un partito decotto e lacerato che il voto potrebbe seppellire e uno pimpante che cerca la consacrazione elettorale. Il primo è parte della maggioranza destabilizzata dalla mossa di Conte, l’altro è da sempre ancorato all’opposizione. La crisi si nutre dei più svariati elementi. Dai malumori per la pesante gestione della pandemia e per l’approccio di Draghi alla vicenda ucraina, considerata da alcuni troppo coinvolgente, fino alla vicenda dell’inceneritore dei rifiuti di cui si prevede la costruzione a Roma mentre i Cinquestelle osteggiano il progetto. Sullo sfondo le perplessità internazionali e le ironie dell’ex presidente russo Dmitrij Medvedev, che allinea Boris Johnson e il capo del governo italiano fra i nemici puniti dalla sorte, chiedendosi chi sarà il prossimo. Il fatto è che a Londra come a Roma gli avvicendamenti al potere, anche se alimentati da dinamiche imprevedibili e a volte assurde come nel caso italiano, non dipendono dalla sorte ma da procedure democratiche, non proprio di casa dalle parti di Mosca.