La solita catastrofe

Il Pakistan è di nuovo in ginocchio a causa delle alluvioni e il governo di Islamabad incolpa l’Occidente
/ 26.09.2022
di Francesca Marino

Millecinquecento morti, trentatré milioni di persone rimaste senza un tetto. Il quindici per cento circa della popolazione del Pakistan ha subito e subisce in un modo nell’altro le conseguenze della peggiore alluvione della sua storia recente: è rimasta senza casa e priva di mezzi di sussistenza. I raccolti sono andati distrutti, in particolare quelli di riso, cotone e grano. Oltre al raccolto delle cipolle, di cui circa il settanta per cento è andato perduto. E, se si considera che il Pakistan produce il 5 per cento del cotone, il 9 per cento del riso e il 2,5 per cento della produzione globale di grano, è molto probabile che la «catastrofe biblica» che ha colpito il Paese abbia un impatto non da poco anche sul resto del mondo. Per quest’anno ma anche per il prossimo, visto che il grano, in Pakistan, si semina da ottobre a dicembre. Si stima anche che circa ottocentomila capi di bestiame siano andati persi. Il cibo scarseggia e i prezzi sono andati alle stelle, aumentati in alcuni casi anche del 500 per cento, tanto che Islamabad sta pensando, tra le polemiche da tutte e due le parti del confine, di riaprire il commercio con l’India per importare pomodori, patate e cipolle.

Scarseggiano anche le medicine e negli accampamenti dove soggiornano gli sfollati stanno scoppiando epidemie di dengue, malaria e infezioni legate alle scarse condizioni igieniche e all’acqua contaminata. È arrivata in Pakistan Angelina Jolie, di nero vestita, per «testimoniare sulle reali condizioni nel Paese», come anche il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres il quale, seguendo la geniale trovata della ministra pakistana per l’Ambiente Sherry Rehman, incolpa dell’accaduto il cambiamento climatico. E chiede per il Pakistan la cancellazione dei debiti e un risarcimento da parte dell’Occidente tutto. E così, come al solito, a Islamabad e dintorni la tragedia si trasforma in farsa. Perché il Paese, come sanno anche i bambini, è terra di terremoti e alluvioni. Perché nei registri della Federal Flood Commission – la Commissione per le alluvioni – il primo evento catastrofico registrato risale al 1950 (il Pakistan è stato creato nel 1947). L’ultima «catastrofe biblica» risale al 2010; nel mezzo, le normali alluvioni che colpiscono ogni anno il Paese.

Nel 2010 le agenzie internazionali hanno mandato aiuti di ogni genere, gli Stati Uniti hanno stanziato più di un miliardo di dollari e hanno finanziato per due anni la ricostruzione di case e infrastrutture. Non solo, hanno fatto pressione sulle agenzie internazionali affinché al Pakistan fosse cancellato parte del debito pubblico e affinché l’Occidente si attivasse per portare soccorsi. Risultato: dodici anni dopo non è cambiato nulla. Anzi, semmai la situazione è peggiorata. Non per via del cambiamento climatico, ma perché per esempio i soldi per la ricostruzione sono finiti nelle tasche dei soliti noti. La National Disaster Management Authority si è ben guardata dal creare un piano per le emergenze o dal rifornirsi di canotti: tutto è continuato come prima. Non solo. Alle organizzazioni umanitarie, con poche eccezioni, non viene ancora permesso di operare direttamente nelle zone colpite. Per legge, da quando si è saputo che a rivelare l’indirizzo di Osama bin Laden era stato un operatore umanitario, a poter scendere in campo sono solo alcune organizzazioni locali designate. Legate all’esercito, ai politici o in qualche caso a organizzazioni terroristiche protette dall’esercito e dai politici.

Nelle zone più colpite, come il Belucistan, solo all’esercito (e alle organizzazioni terroristiche) è permesso di operare. Eppure, come da copione, il governo di Islamabad incolpa l’Occidente chiedendo non opere di bene ma denaro sonante. Senza fare parola del convitato di pietra: la Cina. Responsabile di buona parte dell’inquinamento del Pakistan (che già di suo va a carbone), della infima qualità delle infrastrutture e della costruzione di quartieri cittadini, strade e centrali in zone a rischio. La Cina che, rassicurati i «fratelli» pakistani dell’amicizia eterna e «dolce come il miele», ha inviato sentite condoglianze, 57 milioni di dollari e se ne è lavata le mani. Costringere Islamabad, per una volta, a prendersi le proprie responsabilità, facendo gestire ai donatori sia gli aiuti sia la ricostruzione, non sarebbe male. Per una volta almeno la popolazione riceverebbe dei benefici concreti invece di ritrovarsi, come sempre, sott’acqua e senza più nulla.