Sconfitto l’Isis, oggi in Siria si combatte su due fronti caldi: il cantone curdo di Afrin, invaso il 20 gennaio scorso dalla Turchia, e la circoscrizione della Ghouta orientale alla periferia di Damasco. Sembrano due guerre differenti, ma in realtà non lo sono. Ufficialmente il governo turco sostiene che il proprio intervento in Siria serve a «preservare l’integrità territoriale del Paese» e a sostenere i ribelli siriani contro le Unità di difesa del popolo curdo (Ypg) nel Kurdistan siriano. In realtà Ankara, appoggiata da una nebulosa di gruppi oppositori del regime di Bashar al-Assad più o meno affiliati al Libero Esercito di Siria, intende sottrarre ai curdi dell’Ypg il controllo del cantone di Afrin prima di tutto perché li considera «terroristi» per la loro collaborazione coi curdi turchi del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan – fuorilegge in Turchia dal 1984 –, e in secondo luogo per impedire che il cantone di Afrin (ad ovest dell’Eufrate) riesca ad unirsi agli altri due cantoni del Kurdistan siriano ad est dell’Eufrate, Qamichli e Kobane, realizzando così la contiguità territoriale fra i tre cantoni di quella che nel 2014 gli stessi curdi siriani hanno proclamato la Federazione democratica del nord della Siria alias Rojava, autonoma di nome e di fatto. E un Kurdistan siriano unito, autonomo o indipendente potrebbe invogliare i curdi turchi ad imitare il suo esempio.
Attenzione ora al gioco a geometria variabile delle alleanze sul terreno. I due cantoni curdi ad est dell’Eufrate, Qamichli e Kobane, erano e sono protetti dagli americani, mentre Afrin fino al 20 gennaio scorso, quando è iniziata l’Operazione Ramoscello d’ulivo, era monitorato da un contingente di terra russo. Tutti schieramenti creati da quella che era la priorità delle priorità in Siria fino al dicembre dello scorso anno ovvero la lotta all’Isis o Daesh che dir si voglia. Una volta sconfitto l’Isis questa rete di schieramenti si è indebolita e ogni singola potenza intervenuta nel carnaio siriano ha cominciato a tutelare prima di tutto i propri interessi nazionali anche a costo di entrare in conflitto con gli alleati.
Sotto questo profilo quella che ha rischiato e rischia di più è proprio la Turchia. È un’ alleata storica degli Stati Uniti e membro della Nato, ma non accetta la protezione, l’addestramento e le forniture di armi che gli Usa hanno garantito e garantiscono alle Unità di difesa del popolo curdo (Ypg) in funzione anti-Isis. Non dimentichiamo che le Ypg dal 2014 sono state in prima fila nella lotta al Daesh. Ed è proprio per questo che Washington le continua ad appoggiare, perché in Siria le priorità degli Stati Uniti sono impedire che l’Isis rinasca dalle sue ceneri e al tempo stesso «contenere» l’Iran.
La Turchia, però è alleata anche della Russia di Putin e fa parte della troika Russia-Turchia-Iran che lo scorso anno ha negoziato la creazione in Siria di quattro de-escalation zones, in cui le armi dovrebbero tacere; troika che si ripropone sempre unita quando si tratta di difendere Bashar al-Assad, ma i suoi membri in realtà perseguono obiettivi diversi. Russia e Iran hanno tutto l’interesse a tenere in piedi il regime di Damasco, la Russia perché attraverso la Siria di Bashar è tornata ad essere una potenza di peso nell’intero Medio Oriente e a ottenere basi sul Mediterraneo; l’Iran per realizzare quella direttrice sciita che gli consente di raggiungere il Mediterraneo e minacciare Israele via Siria-Libano-Gaza. La Turchia invece è di tutt’altro parere: intanto sta occupando una fetta di Siria con la collaborazione del Libero Esercito di Siria, nemico di Bashar, e il suo fine ultimo sembra tornato ad essere la caduta del dittatore di Damasco, come lo era nel 2011 quando, per abbattere Bashar, armava e sosteneva l’Isis dietro le quinte sperando che facesse il lavoro sporco in sua vece. Sbagliando calcoli.
Per tornare ad Afrin, prima di intervenire Erdoğan si è visto costretto non solo a volare a Mosca da Putin per chiedergli di spostare il contingente russo dall’area – cosa che Putin ha fatto – e a telefonare più volte a Trump per evitare che le sue truppe o i suoi jet entrassero in collisione con il sistema di «copertura» che gli americani ancora garantiscono ai curdi. Curdi che, non sentendosi sostenuti a dovere dai loro alleati (Russia e Stati Uniti) come quando combattevano l’Isis, per difendersi dalla Turchia si sono rivolti nientemeno che a Bashar al-Assad che non più tardi del 21 settembre ha inviato contingenti militari a dar man forte alle Unità di difesa del popolo curdo (Ypg) e a pattugliare la frontiera con la Turchia. Il rischio così è diventato quello di uno scontro tra turchi e siriani con un certo sconcerto nell’area e a livello internazionale. Stando alle fanfare di Ankara l’Operazione Ramoscello d’ulivo starebbe andando a gonfie vele, la Turchia avrebbe conquistato ben 300 km quadrati nell’area di Afrin, ma il nervosismo di Erdoğan, e il suo dover giocare su troppi tavoli indicano piuttosto una strategia confusa dai pericolosi risvolti internazionali ma anche interni nella misura in cui il numero delle bare rimpatriate dal Kurdistan siriano si moltiplicano.
Nel frattempo l’avventura turca ad Afrin nell’attenzione internazionale è stata surclassata dal dramma che si sta consumando nella circoscrizione della Ghouta orientale alle porte di Damasco. Ghouta, a differenza di Afrin, è compresa in una delle quattro de-escalation zones, e a venir meno al divieto di intervenire in armi nell’area sono stati l’esercito siriano, la Russia e l’Iran con i suoi figliocci libanesi, gli Hezbollah. Come promesso, una volta sconfitto il terrorismo islamico dell’Isis, Bachar al-Assad si è impegnato a stanare «metro per metro» tutti gli altri «terroristi» cioè gli oppositori al suo regime che dopo il repulisti fatto dall’esercito siriano e alleati nell’area di Idbil (altra de-escalation zone violata), dall’inizio dell’anno si sono ammassati proprio nella Ghouta orientale.
E come è nel suo stile Bashar usa tutti i mezzi più barbari per raggiungere l’obiettivo: assieme all’aviazione russa, i suoi jet effettuano bombardamenti quotidiani tanto da trasformare Ghouta nell’«inferno in terra» come ha denunciato il segretario generale dell’Onu António Guterres. I 400’000 abitanti della circoscrizione sono costretti a vivere nelle cantine o in rifugi improvvisati nel sottosuolo, i cadaveri imputridiscono per strada e mancano totalmente l’acqua, il cibo e l’elettricità. A farne le spese, come al solito, sono i più deboli: dal picco dell’offensiva governativa il 18 febbraio al 28, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani i morti sono stati quasi 600, di cui almeno un quarto bambini, e più di 2500 i feriti.
E dire che, sfidando i continui veti della Russia, il Consiglio di sicurezza dell’Onu il 25 febbraio era riuscito ad approvare la risoluzione n. 2401 che avrebbe dovuto imporre a Ghouta (ma anche ad Afrin) una tregua umanitaria parziale di 30 giorni – a partire dal 27 – per consentire dalle 9 alle 14 l’evacuazione dei feriti più gravi e dei civili. Niente da fare. La tregua è stata violata lo stesso 27 febbraio e sempre il 27 sono arrivate altre due notizie ferali. Il «New York Times» ha raccontato di aver preso visione di un rapporto inedito dell’Onu in cui si rivela che a fornire alla Siria materiali per la fabbricazione di armi chimiche (come «pannelli, termometri e valvole resistenti all’acido») sarebbe stata la Corea del Nord e tecnici missilistici nordcoreani sarebbero stati visti in complessi industriali «notoriamente usati in passato nella produzione di armi chimiche».
In pratica, nonostante Bashar al-Assad nel 2013 – dopo aver gasificato la popolazione dei sobborghi orientali di Damasco – si fosse impegnato a distruggere i propri impianti e arsenali chimici, impresa completata nel 2014, avrebbe bellamente continuato a produrre questo tipo di armi di distruzione di massa. Tra il 2012 e il 2017, stando all’Onu, sarebbero avvenute almeno 40 consegne di componenti missilistiche e materiali «doppio uso» militare-civile da parte della Corea alla Siria. Nessuno degli osservatori ha però da esibire prove incontrovertibili che il regime di Damasco produca effettivamente armi chimiche, ma il 13 febbraio e ancora il 26 i cittadini di Ghouta hanno denunciato l’uso di bombe al cloro con vecchi e bambini ricoverati nei pochi ospedali rimasti con sintomi di soffocamento.
L’altra notizia sconfortante è arrivata dalla BBC di Londra. Anche in Siria si sarebbero verificati abusi sessuali sulle donne da parte di cooperanti internazionali che in cambio degli aiuti pretendevano favori particolari. Se si pensa che in Siria gli aiuti arrivano col contagocce ed è difficile distribuirli anche tra gli sfollati e i rifugiati si ha la misura del degrado morale che le guerre portano con sé.
Non bastassero quelle già in corso, in Siria sembra infine profilarsene un’altra. Il 28 febbraio la Fox News americana ha trasmesso immagini satellitari di quella che la rete televisiva ha definito «una nuova base militare dell’Iran in Siria» nei pressi di Damasco, «con depositi grandi abbastanza da contenere missili in grado di colpire Israele». Tra Israele e l’Iran la tensione è al calor bianco da un mese, ma fino ad oggi nessuno dei due paesi ha mostrato fretta per arrivare a uno scontro diretto. Il clima in Siria però è ormai tale che il minimo incidente o pretesto può scatenare altri inferni. Nell’era post-Isis infatti le potenze mediorientali hanno scelto proprio il cadavere della Siria per sfrenare i propri appetiti o regolare vecchi conti.