La Sicilia rottama il Pd

Voto regionale – Secondo Matteo Renzi non ci saranno ripercussioni nazionali, ma intanto vince Berlusconi, la cui strategia di unificazione della destra si è dimostrata vincente
/ 13.11.2017
di Alfredo Venturi

Attentissimo ai sondaggi d’opinione, Matteo Renzi se lo sentiva e da tempo aveva messo le mani avanti: quello siciliano non è che un voto regionale motivato da dinamiche locali, non avrà alcuna ripercussione nazionale. Invece ne avrà eccome, se non altro per la dimensione del disastro: in un clima di generale disaffezione (ha votato meno della metà degli elettori) il Partito democratico crolla e si ferma poco sopra il tredici per cento, mentre con le liste coalizzate rimane al di sotto del diciannove. Unica luce nel buio fitto, le liste di sinistra, di cui il Pd temeva l’umiliante sorpasso, tenute a distanza. Esattamente come avevano previsto le demoscopie, il partito «a vocazione maggioritaria», che aspira a confermarsi alla guida del Paese nelle elezioni parlamentari della prossima primavera, arranca in terza posizione fra le formazioni siciliane, alle spalle del centrodestra guidato dal redivivo Silvio Berlusconi e dei Cinquestelle. Questi ultimi, nonostante le negative esperienze comunali a Roma, Torino e altrove, hanno ottenuto un risultato clamoroso, che sarebbe stato ancor più spettacolare se Beppe Grillo e i suoi fossero riusciti a smuovere la muraglia dei non votanti. Proprio la scarsa affluenza al voto ha impedito ai grillini la conquista della regione, che sembrava cosa fatta appena qualche mese fa, lanciando alla presidenza il candidato del centrodestra Nello Musumeci.

Non ci saranno ripercussioni nazionali, dice Renzi. Lo ribadisce in tv, dove era previsto un confronto con Luigi Di Maio, candidato dei Cinquestelle alla guida del governo. Ma Di Maio ha deciso di annullare il duello che pure aveva sollecitato. Lo ha fatto con parole aspre: con questo voto il Pd è politicamente defunto, Renzi non conta più nulla, non è lui il mio rivale, aspetto di misurarmi con un candidato vero alla presidenza del consiglio. Che fai Di Maio, scappi? hai paura?, prova a reagire il segretario. Poi assicura: provano a togliermi di mezzo ma non ci riusciranno, io non mollo. Ma scalpita anche la base democratica, perfino fra i meno ostili si fa strada l’idea che l’immagine di Renzi sia ormai compromessa, che per la corsa a Palazzo Chigi bisognerebbe puntare su un altro cavallo. Per esempio su Paolo Gentiloni, che a Palazzo Chigi c’è già e nello sfascio del Pd appare a molti come una sorta di ancora di salvezza. Nominato da Renzi all’indomani di un’altra sconfitta, il referendum sulla riforma costituzionale, Gentiloni si è di fatto liberato, pur senza prendere le distanze dall’ingombrante predecessore verso il quale continua a professare fedeltà e amicizia, del ruolo di semplice sostituto imponendosi in Italia e all’estero come un capo di governo responsabile e sensato, dallo stile sobrio e accattivante.

In pratica il Partito democratico potrebbe trovarsi di fronte a un dilemma davvero imbarazzante per il segretario: perdere sicuramente con Renzi o tentare la rivincita con Gentiloni? Altri fanno il nome di Marco Minniti, il ministro dell’interno la cui energica gestione di temi caldi come l’immigrazione piace anche al di fuori dello steccato Pd. Del resto, come non manca di far notare lo stesso Renzi, la mancata riforma costituzionale fa sì che non esistano candidati alla guida del governo: la scelta toccherà al presidente della repubblica sulla base del risultato elettorale. La legge recentemente varata sembra fatta apposta per complicare le cose. Elaborato allo scopo di ostacolare la marcia dei Cinquestelle, il nuovo meccanismo incoraggia le coalizioni, alle quali il movimento grillino è notoriamente allergico, e prima che si conoscesse l’esito del voto in Sicilia lasciava intravedere lo scenario aborrito da coloro che hanno lasciato il Pd: il patto Renzi-Berlusconi, il governo dell’«inciucio». Molti si chiedono se questa prospettiva sia ancora credibile. Non sembra proprio: l’hanno resa improbabile l’eclissi del segretario democratico consacrata dagli elettori siciliani (che lo condannerebbe in caso di «inciucio» a un ruolo subalterno) e il nuovo bipolarismo emerso da questo voto, che esclude il Pd e regala il campo a centrodestra e Cinquestelle. La mossa di Di Maio, motivata anche dal desiderio personale di evitare un confronto difficile, rivela infatti la vera novità politica del momento: l’interlocutore dei Cinquestelle non è più Renzi, è Berlusconi.

Nonostante l’evidente crisi di sopravvivenza, il segretario Pd non si dà per vinto. Dice che lavorerà a una coalizione che possa raggiungere il quaranta per cento, ammette la possibilità che dopo il voto Gentiloni resti al suo posto. Ma la sinistra è riluttante a ricucire lo strappo e lancia per Palazzo Chigi il nome di Pietro Grasso, il presidente del Senato che ha recentemente lasciato il Pd. E così segna il passo l’avventura politica di Renzi, cominciata alla presidenza della provincia di Firenze, proseguita come sindaco di quella città, culminata nel vittorioso assalto al vertice del partito e alla presidenza del consiglio. Giovane, spavaldo, sicuro di sé, all’inizio seppe imporsi come portatore di speranze nuove, legate allo svecchiamento della politica e a un programma di ambiziose riforme. Promise l’uscita dalla crisi e il rilancio dell’occupazione e sulla base di queste rosee prospettive il suo partito, alle elezioni europee del 2014, superò il quaranta per cento. Ma presto dovette vedersela con le delusioni di un Paese che non percepiva affatto il superamento della crisi sbandierato dal capo del governo. La popolarità di quest’ultimo cominciò a declinare, fino a infrangersi sullo scoglio della metamorfosi impressa al Pd. Di provenienza cattolica, Renzi ha sottovalutato le ansie e le nostalgie, e soprattutto la sensibilità, dell’altra componente del partito, quella che proviene dall’esperienza nel partito comunista. Sono stati proprio gli ex comunisti del Pd, a cominciare da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, bersagli della «rottamazione» renziana, ad alimentare la diaspora sulla sinistra del partito.

Visibilmente ispirato al modello di Berlusconi, come lui creatore di un partito da governare in beata solitudine, fautore di una politica neo-liberista particolarmente irritante per lo zoccolo duro di antica tradizione socialista, incurante fino al disprezzo dell’opposizione interna, ha finito con il perdere consensi a sinistra mentre è mancato il corrispondente afflusso dalla destra. Sollecitato a darsi una nuova identità, il partito non è riuscito a trovarla e intanto ha smarrito la vecchia. Del resto, fanno notare i compagni delusi che lo hanno abbandonato, non si vede proprio perché mai gli elettori di centrodestra, avendo a disposizione Berlusconi, cioè il personaggio originale rilanciato proprio dalle scelte di Renzi, dovrebbero sceglierne la copia. E così, mentre da Palermo arrivano quei disastrosi dati elettorali, possono calcare la mano sull’amaro destino del segretario: in pochi anni, accusano, è riuscito a realizzare due imprese inimmaginabili: distruggere il partito, resuscitare Berlusconi.