Tra metà dicembre 2020 e le prime settimane di gennaio 2021 la campagna vaccinale contro la pandemia da SARS-CoV-2 ha preso il via in tutti i Paesi del mondo. Di fronte allo straordinario successo dei ricercatori di diverse aziende farmaceutiche, che nell’arco di pochi mesi (nonostante l’evidente perplessità manifestata da quanti − tanti! −, sostenevano che fosse impossibile realizzare vaccini in meno di più anni) sono riusciti a sviluppare, testare e far commercializzare più preparati vaccinali sicuri ed efficaci, ne sono anche derivate altrettanto grandi aspettative. Certamente, è da sempre stata anche diffusa la consapevolezza per cui le prime forniture sarebbero state insufficienti a campagne vaccinali di massa, fatto che ha imposto di suddividere la popolazione in categorie di rischio. Si è operata, pertanto, una categorizzazione di individui e/o fasce d’età ritenute fisiologicamente e/o anagraficamente più a rischio di grave decorso in caso di malattia.
Al trascorrere dei mesi, si è fatto largo una tendenza assimilabile al dirigismo (o all’iperinterventismo pubblico). Sebbene gli Stati abbiano avocato a loro stessi il «diritto-dovere» di garantire equo accesso ai vaccini in quanto considerati «beni pubblici» sostenendone anche le relative spese, la somministrazione delle dosi vaccinali agli utenti non è diffusamente avvenuta con quella celerità che l’eccezionalità degli eventi ha richiesto. E non può solo la mancanza di dosi ad essere addotta a giustificazione: non si spiegherebbe, infatti, perché alcuni Paesi (piccoli e grandi, sedi di aziende farmaceutiche e non) abbiano raggiunto da tempo livelli vaccinali ben oltre ogni media internazionale. Piuttosto, hanno influito contrattazioni non sempre tempestive oppure orientate a ribassi di prezzo, eterogeneità di processi d’omologazione, ritmi di fornitura disomogenei così come difficoltà di iniziale coordinamento fra diversi livelli amministrativi (cioè centrali, regionali e locali).
Ne sono, quindi, risultati approcci vaccinali sì dettagliati, ma altrettanto differenti fra Paesi − ad esempio, in alcuni si è deciso di vaccinare specifiche categorie lavorative (non necessariamente mediche) o si è previsto di somministrare liberamente negli studi medici alcuni preparati vaccinali − e la presa d’atto che in troppe economie avanzate la popolazione più giovane (che spesso contribuisce sotto il profilo economico-fiscale parimenti al benessere delle stesse) non abbia avuto accesso alla preadesione se non diversi mesi dopo inizio delle campagne vaccinali. Sebbene la mano pubblica abbia voluto assumersi il difficile compito di gestire una situazione dai tanti «focolai» con un approccio caratterizzato da grande complessità organizzativa per via del principio del «don’t call us, we call you!», la gestione è stata inizialmente subottimale: ancor più, a fronte del fatto che siano diverse le voci a sostenere che si stia entrando in un’«era di pandemie» (sebbene sulle origini della presente siano ancora aperti diversi interrogativi).
Nel bel mezzo di ciò, ecco oltretutto aggiungersi l’ipotesi di sospendere (anche solo temporaneamente) i brevetti dei vaccini. Fondamentalmente, la ratio economica sottostante è che rappresentino «beni pubblici» − quindi, spettanti per erogazione al policymaker pubblico e poco demandabili a soggetti privati. Se di primo acchito può apparire approccio ragionevole e dal facile consenso, non si deve dimenticare come lo sviluppo di più vaccini sia innanzitutto avvenuto grazie ai ricercatori operanti per big pharma, oltre ad avere fortunamente registrato tempi più veloci della somministrazione stessa. È come se la semina, coltura e raccolta di un prodotto agricolo abbisognasse di meno tempo del suo smercio. Se di «bene pubblico» solo e sempre si trattasse, non si sarebbe forse dovuto affidare al settore privato e si sarebbe invece dovuto già nel 2020 optare per una task force internazionale di scienziati sotto l’egida delle istituzioni sovranazionali competenti, il cui compito sarebbe appunto dovuto essere quello di sviluppare «monopolisticamente» il vaccino: in caso contrario, un esproprio (anche temporaneo) dei brevetti diviene difficilmente giustificabile e d’incentivo futuro. Non è una questione di numeri di dosi e tassi di vaccinazione − soprattutto, se raggiunti estendendo i tempi di richiamo oltre a quanto suggerito dalle case farmaceutiche produttrici: è, piuttosto, di trarne gli insegnamenti necessari anche in vista di eventuali richiami già paventati da diverse fonti scientifiche internazionali.
Nota
* Elaborazione propria sulla base di: https://ourworldindata.org/covid-vaccinations (dati come reperibili il 13 luglio 2021).