Quando nel 2001 Jim O’Neill, l’economista britannico che fu a lungo ai vertici della Goldman Sachs, pose sotto la lente dell’analisi il fenomeno delle grandi economie emergenti, prese in considerazione quattro Paesi: Brasile, Russia, India e Cina. Dunque per identificarli lanciò l’acronimo BRIC. Ma nove anni più tardi una quinta potenza, il Sudafrica, entrò a far parte del gruppo, da allora il nuovo soggetto delle relazioni mondiali si è chiamato BRICS. Con questo nome si è gradualmente imposto un ambizioso protagonista della finanza internazionale, capace di metterne in discussione i fondamenti tratteggiando un’alternativa all’attuale sistema. Che cosa hanno in comune questi Paesi? Prima di tutto la sovrabbondanza di popolazione, territorio e risorse naturali, quindi uno sviluppo tuttora in corso con indici di crescita tendenzialmente alti.
La New Development Bank
Il gruppo, che rappresenta circa un terzo della popolazione mondiale, celebrò nel 2009 il suo primo vertice. Ma non ne uscì che un semplice impegno a una più stretta cooperazione in materia finanziaria. Il passo decisivo, il primo affacciarsi fra i grandi attori della scena mondiale, risale al 2014 quando durante il Vertice di Fortaleza i Cinque fondarono la New Development Bank con un capitale iniziale di cinquanta miliardi di dollari successivamente portati a cento. Cominciò così a delinearsi la sfida dei BRICS all’attuale assetto a guida occidentale, fondato sul ruolo determinante del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale.
È stato un fattore esterno, il conflitto ucraino e le sue conseguenze sugli equilibri planetari, a rendere i BRICS un elemento capace di modificare l’assetto geopolitico. I cinque Paesi registrano già da qualche tempo un Prodotto Interno Lordo superiore a quello dell’Unione Europea e sempre più vicino a quello americano. Ovviamente del tutto diversa è la situazione quando si parla di PIL pro capite, perché fra gli emergenti il prodotto va spartito su un’amplissima base demografica. Per esempio la Cina, pur avvicinandosi al livello degli USA in termini globali, ne è lontanissima nelle statistiche individuali. In ogni caso le prospettive di crescita fanno sì che numerosi Paesi guardino con interesse al gruppo aspirando a farne parte.
Meno dipendenza dal dollaro
I BRICS si propongono di offrire ai Paesi in crisi un sostegno finanziario non più legato alle condizioni fin qui imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale, spesso criticate per la loro durezza e accusate di mirare al controllo se non all’asservimento delle economie. Si propongono di ridurre la dipendenza dal dollaro americano. Per questo promuovono il pagamento delle transazioni internazionali con le monete locali e prefigurano la sostituzione del dollaro come valuta di riferimento con una nuova moneta, che potrebbe essere lanciata in agosto al vertice di Città del Capo, o con una delle valute BRICS, presumibilmente lo yuan cinese, cioè la moneta del Paese economicamente più forte.
Il sistema BRICS cerca dunque di contrastare il predominio finanziario occidentale, in particolare prendendo di mira la posizione egemonica degli USA e consacrando il ruolo internazionale della Cina, la sua assertività economica, la sua penetrazione commerciale in vaste aree economiche, per esempio in Africa dove gli investimenti di Pechino sono in costante aumento. Lo scorso marzo il presidente del Ghana Nana Akufo-Addo, ricevendo ad Accra la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris, le ha fatto polemicamente notare che Washington è ossessionata dalle attività cinesi nel Continente, ma che in realtà «qui non esiste alcuna ossessione».
L’ambizione dei BRICS si fonda sul fatto che gli indici di sviluppo dei Paesi che ne fanno parte sono e con ogni probabilità continueranno a essere mediamente superiori a quelli dell’Occidente, e dunque il loro peso economico è destinato a crescere più rapidamente. D’altra parte lo stesso O’Neill che tenne a battesimo il gruppo sottolinea che questa crescita non è armonica, per esempio mentre la Cina sta realizzando il suo potenziale di sviluppo crescono più lentamente il Brasile, la Russia e l’India, che hanno bisogno di potenziare le attività industriali e non basarsi soltanto sulla fornitura di materie prime. Secondo molti analisti, in ogni caso, difficilmente questa evoluzione potrà intaccare più di tanto la forza del dollaro, che si fonda sul suo persistente ruolo di valuta di riserva e sulla potente economia degli Stati Uniti.
Questi Paesi ansiosi di rielaborare il sistema delle relazioni internazionali ne mettono in discussione l’impronta occidentale. È una sfida politica e culturale prima ancora che finanziaria, che attinge dal crogiolo della guerra ucraina una forte motivazione anti-americana. Intanto si allunga la lista dei Paesi che vorrebbero entrare a far parte dei BRICS: l’Arabia Saudita, l’Algeria, l’Argentina, il Messico, l’Egitto, l’Iran, il Vietnam, la Nigeria, l’Indonesia… Non senza qualche contraddizione nella definizione del fenomeno: qualcuno parla per esempio di resurrezione del Terzo Mondo, dimenticando che questa categoria si contrapponeva anche a un blocco a guida sovietica, mentre oggi l’elemento principale di ciò che resta dell’URSS, la Russia, è parte dei BRICS.
Verso un futuro bipolare
Si fanno anche paragoni con il Movimento dei non allineati, che come il Terzo Mondo si confrontava con due modelli alternativi respingendoli entrambi. Inoltre se ne parla come di un’espressione del «Sud del mondo», un’etichetta che difficilmente potrebbe adattarsi alla Federazione Russa. Infine questo gruppo arrembante non corrisponde affatto alla visione, alimentata soprattutto dalla Russia impantanata nel conflitto ucraino, del sistema multipolare che dovrebbe prendere il posto dell’attuale modello globalizzato. In realtà la valenza sempre più chiaramente politica dei BRICS sembra preludere, se sarà confermata la tendenza a un massiccio allargamento del gruppo, a un futuro sostanzialmente bipolare. Da una parte l’Occidente gravitante attorno agli USA e all’UE, dall’altra il blocco degli emergenti a guida russo-cinese.