Che la situazione del Belpaese sia grave, ma non seria – leggendario aforisma di Ennio Flaiano – lo testimonia l’ultima esternazione del nostro ministro degli Esteri, a sua insaputa, Luigi Di Maio. Ha infatti annunciato di «voler far tornare la felicità nelle case degli italiani». Ci sarebbe da sbarrare le porte, da pronunciare ogni scongiuro. A Di Maio, infatti, i proclami vengono bene, molto meno la loro attuazione. Ancora si ricorda allorché all’inizio del governo con la Lega s’affacciò dal balcone di Palazzo Chigi per sancire in uno sventolio di bandiere «l’abolizione della povertà».
Per favorirla lui e Salvini vararono il reddito di cittadinanza e quota 100, cioè il pensionamento anche a sessant’anni. Fior di economisti continuano a definirle due misure antitetiche allo scopo e capaci soltanto di dilapidare i già esigui fondi a disposizione dell’esecutivo. Soprattutto il reddito di cittadinanza: da un lato non costituisce un doveroso contrasto alla povertà, dall’altro lato ricorda le vergognose pensioni d’invalidità distribuite dalla Democrazia Cristiana in Meridione.
Più ancora di Salvini, che facendo politica dalle elementari ha almeno appreso i rudimenti, Di Maio simboleggia il trionfo dell’incapacità, la presunzione dell’incompetenza. È il classico dilettante, che manda allo sbaraglio gli altri. Incarna il miracolato per eccellenza, abilissimo nell’azzeccare ogni volta la scia giusta: ha cominciato con il tricolorato Grillo (dalle tre tonalità dei capelli); ha proseguito con l’allegro cazzaro Di Battista, in quanto tale detentore di un considerevole seguito popolare; si è ora arroccato con il padrone del M5S, Davide Casaleggio, che ha ereditato il movimento dal genitore Gianroberto, il vero fondatore, alla faccia del merito e della presunta democrazia proveniente dal basso.
Purtroppo per l’Italia il M5S si è rivelato la risposta sbagliata a una sacrosanta indignazione. Il fallimento dei partiti tradizionali e il talento attoriale di Grillo l’hanno spinto in cima alla montagna. Pervasi dal falso convincimento che persino il più stupido possa essere un buon politico, purché onesto, hanno selezionato una rappresentanza totalmente inadeguata. Hanno mandato nei ministeri sprovveduti supponenti alla Toninelli o enigmatiche signore espressione di realtà ambigue come la Trenta. Ma su tutti ha primeggiato Di Maio.
Non soltanto per il ruolo di capo politico e di privilegiato referente di Grillo e di Casaleggio, ma anche per la spregiudicata destrezza con cui ha difeso il proprio ambito a scapito delle pretese altrui. Al di là dei modi compìti, degli abiti scuri, che tuttavia conservano sempre l’aria di una svendita grandi magazzini, Di Maio non ha dimenticato la dura scuola di vita, nella quale si è formato. In dieci anni è passato da Pomigliano d’Arco, casualmente beneficiata da una sproporzionata quantità di percettori del reddito di cittadinanza, alle riunioni nei salotti riservati di Roma, ai vertici nelle capitali del pianeta. E chi se ne frega se lo relegano a far da tappezzeria.
Privo di una laurea, di una qualsiasi specializzazione, di significative esperienze lavorative, a parte il vendere bibite allo stadio San Paolo di Napoli, l’ascesa di Di Maio non è una storia di successo, ma un giro pazzo della ruota della fortuna. Gli hanno regalato il biglietto vincente della lotteria e lui giustamente se lo tiene ben stretto, s’adopera di sfruttarlo al meglio, disposto a qualsiasi contorcimento come accaduto con alcuni trascorsi imprenditoriali del padre. Di conseguenza non ha avuto scrupoli nell’esigere con il Conte1 i fondamentali Ministeri dello Sviluppo economico e del Lavoro e con il Conte2 il Ministero degli Esteri.
Gli servivano e gli servono per salvaguardare la posizione all’interno dei 5Stelle. È l’ultimo cultore, in attesa dei prossimi, della vecchia regola democristiana: le leggi s’interpretano con gli amici e si applicano con i nemici. Perciò Renzi e il suo governo sono stati svergognati per aver provato a rimettere in sesto quattro banche di provincia; al contrario Di Maio ha esibito il petto in fuori e si è lanciato in una vanitosa autocelebrazione quando ha prima salvato la Cassa di risparmio di Genova e poi investito 900 milioni per evitare il fallimento della Popolare di Bari.
La sua sola stella cometa è il potere. Ci sta abbarbicato con la determinazione di chi ha compreso che una volta disarcionato, se li sognerà passerelle e ricevimenti, interviste e privilegi. Va avanti alla giornata, pronto a ogni capriola, a ogni smentita, a ogni voltafaccia. La costante imprescindibile è la sua ignoranza, questa sì spaziante in diversi campi. Per lui Pinochet fu il dittatore del Venezuela; incolpò Israele di non volerlo fare entrare a Gaza, che è invece controllata da Hamas; definì la Russia una Nazione del Mediterraneo; stabilì che Matera stava in Puglia e non in Basilicata; chiamò il presidente cinese Ping anziché Xi Jinping. Il tutto condito da un’avversione al congiuntivo così naturale e spontanea da aver fatto sospettare che nel nuovo governo con il Pd abbia preteso il ministero degli Esteri per la mancanza del congiuntivo nella lingua inglese. Tranne poi scoprire che il suo inglese è quello delle barzellette.
Eppure Di Maio si comporta da uomo forte dell’attuale alleanza grazie allo strepitoso successo elettorale del 2018 con il M5S quasi al 33%. Significa che i 220 deputati e gli oltre 100 senatori gli consentono di fare la voce grossa, finché dal Pd non ricordano che se proprio dissente, si torna al voto. E qui casca l’asino: in meno di due anni Di Maio ha infatti trascinato il partito sotto il 15% riuscendo lì dove avevano fallito tutti i suoi avversari. Ne discende che per lui le elezioni anticipate siano peggio della peste, da evitare a qualsiasi costo. Si tratta dell’unica sua determinazione condivisa dal Parlamento quasi al completo, con la sola eccezione della Lega. Fanno paura i sondaggi che la danno tra il 30 e il 34%, e pure la cospicua riduzione di deputati e senatori imposta dai pentastellati. L’ennesimo provvedimento demagogico spacciato per emblema del virtuoso cambiamento.
Sui rappresentanti del Movimento incombe il limite del doppio mandato. Una tagliola, che molti, con Di Maio in testa, si stanno industriando di scongiurare. Significherebbe, però, la smentita più cocente di quella che fu l’ideologia degli inizi quando gli altri erano definiti liquame e loro, invece, s’identificavano nella virtù; quando le istituzioni erano da aprire come una scatoletta di tonno, mentre oggi si trovano surclassati sulle piazze dalle «sardine»; quando si vantavano di agire e decidere sempre in streaming sotto l’occhio della base e non nelle segrete stanze come fanno attualmente.
A contestare Di Maio sono adesso i beneficiati di un tempo, in prima linea gli ex ministri Toninelli, Trenta, Lezzi, Grillo: avevano davvero creduto di poter riscrivere la Storia, viceversa si sono accorti di esser fuori dalla cronaca. Davanti al loro tentativo di limitarlo, Di Maio ha risposto abbarbicandosi a Casaleggio jr, un signore titolare di una società privata, che in teoria niente avrebbe da spartire con il M5S. Sono stati inventati i «facilitatori», in pratica 24 ministri ombra incaricati di aiutare Di Maio a effettuare le scelte più adatte. I ruoli maggiormente delicati sono stati affidati a fedelissimi di Casaleggio. Un contentino è stato dato a Toninelli, dovrà occuparsi delle campagne elettorali. La Trenta, esclusa, ha chiamato in ballo gl’immancabili poteri forti. Quelli che magari l’avevano aiutata a conservare l’appartamento di rappresentanza, cui avrebbe dovuto rinunciare appena decaduta dal Ministero. Per farla sloggiare si è dovuta muovere la procura militare.
Le disgrazie dell’Italia sono insomma servite per regalare il più impensabile dei divertimenti a un apprendista stregone. E che possa addirittura rappresentare l’Europa nella trattativa con le due forze che si disputano la Libia non è incoraggiante per il Vecchio Continente.