Che cosa resterà dell’ennesimo conflitto di Gaza, tragico appuntamento che rompe con periodicità pluriennale la tregua fra Hamas e Israele? Sotto il profilo della partita a due, nulla di rilevante. Ma sul fronte interno israeliano probabilmente molto. Israele deve infatti confrontarsi con la scomoda realtà della rivolta dei «suoi» arabi, che credeva addomesticati. In termini pratici, quasi due milioni di anime che dalla mattina alla sera sono passati dallo status di vicini di casa con cui spesso si condivideva la quotidianità a potenziali terroristi.
La scintilla è infatti scattata in un sobborgo di Gerusalemme est, la porzione araba della capitale israeliana: Sheikh Jarrah. Qui l’intenzione di alcuni ebrei di tornare in possesso di case appartenute a loro avi ha scatenato la furiosa reazione di chi stava per essere sloggiato e soprattutto la ribellione di migliaia di arabi israeliani, solidali con i potenziali sfrattati (la Corte suprema israeliana dirimerà la vertenza, senza fretta). Di qui a incendiare per giorni e notti gran parte delle città miste, quelle cioè dove israeliani di ceppo arabo ed ebraico convivono da molti decenni, non c’è voluto molto. Evento del tutto inaspettato, cui lo Stato israeliano ha reagito con vigore.
Al di là dei casi di Lod, Jaffa, Haifa e ovviamente Gerusalemme est, questa crisi pone lo Stato ebraico di fronte al problema strategico della divisione del fronte interno. Per un Paese costantemente con il fucile al piede in attesa degli aggressori che si facessero vivi alla porta, scoprire che la minaccia ce l’hai in casa è uno shock. Tale da obbligare a interrogarsi sulle cause e soprattutto sui rimedi. Immaginare che Israele, ossessionato dalla sicurezza, lasci passare quanto accaduto nelle città miste significa trascurarne l’identità profonda. Ci sarà certamente qualche forma di rappresaglia, e altrettanto sicuramente la stretta securitaria attorno ai quartieri a rischio sarà molto più robusta di quanto fosse fino ai primi di maggio.
Le cause di questa ribellione non sono solo economiche. Né basta la pur giustificata paura di trovarsi per strada a spiegare come mai tranquilli vicini arabi si siano manifestati alla maggioranza ebraica improvvisamente sotto una luce sinistra. La questione essenziale è lo status. Meglio, l’identità. Essere arabo nello Stato nazionale del popolo ebraico significa non poter partecipare pienamente della collettività in cui si è incardinati. Gli arabi israeliani sono cittadini di serie B che sentono di rischiare la C. Mentre fino a ieri l’accento cadeva su «cittadini» adesso rivela il declassamento di fatto, compensato finora dall’accesso al welfare e ai benefici di uno Stato comunque organizzato e ben funzionante. Ciò che aveva convinto la grande maggioranza degli arabi israeliani del vantaggio di vivere nello Stato ebraico invece che nei Territori occupati, teoricamente governati dalla corrotta e inefficiente Autorità nazionale palestinese. Per tacere dell’orrore di Gaza.
Alcuni arabi israeliani, esentati dal servire Israele in armi, negli ultimi anni avevano persino manifestato la disponibilità a entrare nelle Forze armate dello Stato ebraico, che invece preferisce, salvo eccezioni (specialmente drusi, circassi e qualche beduino), tener fuori dal suo sistema di difesa chi non appartiene al ceppo titolare. Specie nel 2 per cento di arabi israeliani di credo cristiano si manifestava l’intenzione di varcare la linea rossa e di entrare nell’esercito nazionale, con qualche incentivo da parte ebraico-israeliana.
Inoltre, fino a immediatamente prima delle crisi di Sheikh Jarrah e di Gaza, i partiti arabi rappresentati alla Knesset (il Parlamento) parevano pronti a entrare nel nuovo Governo israeliano. Sarebbe stata una prima assoluta. Ora questa ipotesi appare più difficile – si rischiano anzi le quinte elezioni consecutive per l’impossibilità di formare una maggioranza di Governo alla Knesset – anche se non da escludere totalmente una volta calmate relativamente le acque.
Negli ultimi tre anni, però, qualcosa è cambiato. L’approvazione nel 2018 della legge su Israele Stato nazionale del popolo ebraico ha statuito finalmente quanto tutti già sapevano: il carattere ebraico (sionista) di uno Stato che pure per un quinto è formato da arabi, per tacere della notevole varietà di ceppi, gusti e gruppi ebraici. Di fatto, un declassamento degli arabi, che malgrado le rassicurazioni di Gerusalemme non sono mai stati davvero trattati da corposa minoranza comunque integrata, restando quasi in un limbo. Quando una persona si sente minacciata nello status sociale e identitario, la sua reazione può essere più violenta di quanto sarebbe stata in caso di attacco allo status economico. Il dilemma che Israele si porta dietro dalla nascita – come far convivere in un solo Stato comunità diverse, con un passato di scontri e di guerre – appare oggi più intricato di ieri.
La rivolta degli arabi israeliani
I membri della corposa minoranza, trattati come cittadini di serie B, solidarizzano con i palestinesi. Israele potrebbe reagire con qualche forma di rappresaglia e aumentare i controlli attorno ai quartieri a rischio
/ 24.05.2021
di Lucio Caracciolo
di Lucio Caracciolo