La rivincita dei talebani

Con il ritiro delle truppe occidentali il Paese torna in balia degli estremisti islamici che avanzano, distretto dopo distretto. Per contrastarli si organizzano delle milizie locali e il rischio di una guerra civile è sempre più alto
/ 05.07.2021
di Daniele Raineri

Alcune settimane fa il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, è andato alla cerimonia dell’ammaina bandiera nella base di Herat, nell’Afghanistan occidentale. Davanti ai due file di soldati italiani, albanesi e americani – e dentro l’hangar degli elicotteri per ripararsi dai 40 gradi del tardo pomeriggio – ha elogiato «la missione di stabilizzazione» nel Paese e poi ha annunciato un’altra missione, molto più piccola, per portare in salvo i traduttori e tutti gli afghani che hanno aiutato in questi anni i militari italiani. Potrebbero essere più di 600 persone, tutte evacuate dall’Afghanistan e portate in Italia per sfuggire alla vendetta dei talebani. Due traduttori erano presenti fuori dall’hangar e hanno spiegato che rischiano la vita perché i fanatici potrebbero trattarli come collaborazionisti e ucciderli. Anche gli altri contingenti stanno portando avanti operazioni simili per i loro traduttori, dopo che alcuni sono stati assassinati.

La contraddizione tra questi anni di cosiddetta stabilizzazione e l’annuncio dell’evacuazione dei traduttori è molto chiara ed è anche la prova di un segreto conosciuto da tutti: il ritiro delle truppe americane e della Nato equivale a dare un’enorme chance di vittoria ai talebani, che non vedono l’ora di riprendersi con la violenza il Paese, che fino al 2001 era in gran parte sotto il loro controllo. Su una porta del comando militare dentro la base di Herat c’è scritto a lettere cubitali «Winners never quit, quitter never win»: i vincitori non mollano e chi molla non vince mai. I talebani non potrebbero essere più d’accordo. E proprio su questo concetto si basava fin dall’inizio della guerra la loro strategia a lungo termine: aspettare che i contingenti stranieri dopo decenni di sostegno al Governo di Kabul lasciassero il teatro delle operazioni. Sapevano che prima o poi la ragione politica della presenza in Afghanistan sarebbe diventata incomprensibile agli elettori di Paesi lontani e che sarebbe tornato il loro momento. Così, dopo essere stati cacciati 20 anni fa dall’accoppiata micidiale dei bombardamenti americani dal cielo e dalle forze dell’Alleanza del nord a terra, si sono riorganizzati anche con l’aiuto del Pakistan e adesso stanno devastando le linee di difesa dell’esercito afghano.

Sono sopravvissuti a decenni di guerriglia contro i soldati occidentali, per loro adesso è iniziata la discesa. Ogni giorno conquistano nuovi distretti e ne perdono altri, questo rende il conteggio provvisorio. I numeri più affidabili dicono che il 29 giugno i talebani controllavano 157 distretti degli oltre 400 nei quali è diviso l’Afghanistan. Quindi da quando hanno cominciato l’offensiva per approfittare del ritiro americano, il primo di maggio, hanno preso 80 distretti. I pochi soldati occidentali in Afghanistan da tempo non uscivano più a combattere ma avevano un ruolo cruciale. Guidavano i bombardamenti, raccoglievano informazioni, usavano la loro tecnologia superiore e facevano da tappo contro l’avanzata talebana. In un certo senso per loro la guerra era già finita da anni, come risulta chiaro dal fatto che non c’erano più perdite. In Occidente si parlava ancora di «guerra in Afghanistan» ed era materia di dibattito politico, ma il conflitto sul campo era stato lasciato da molto tempo ai soldati afghani. Tolto il tappo ora la guerriglia dilaga.

Eppure non doveva essere così, secondo i piani. L’Amministrazione Trump aveva presentato il ritiro dall’Afghanistan come l’occasione per una riconciliazione politica tra i talebani e Governo centrale di Kabul. Per alcuni mesi se ne è parlato come se fosse un’ipotesi realistica e Trump voleva addirittura invitare i capi talebani a Camp David negli Stati uniti per siglare un accordo di pace. In teoria i guerriglieri avrebbero dovuto accettare un patto di convivenza col Governo. In cambio avrebbero ottenuto concessioni e un ruolo nell’amministrare l’Afghanistan. Sarebbero diventati l’ala dura e intransigente della politica afghana. Poi la faccenda è stata messa a fuoco meglio. Non c’è alcuna riconciliazione in vista tra talebani e Governo centrale, i talebani sono per loro natura irriducibili e impermeabili al compromesso, non vogliono entrare in una grande coalizione politica e fare la parte del partito religioso. Vogliono vincere la guerra civile e massacrare chi si oppone. Il ritiro americano non è un accordo che a questo punto si basa sulle condizioni, nel senso che non ci sono più richieste che i talebani devono soddisfare altrimenti si annulla tutto. Ormai il ritiro si basa soltanto sul calendario e i talebani sono liberi di fare quello che vogliono.

E in effetti fanno già quello che vogliono, con l’accortezza di non attaccare le truppe straniere per non creare ritardi nel ritiro (i talebani devono avere una loro variante locale del proverbio «al nemico che fugge ponti d’oro»). Distretto dopo distretto, i soldati afghani lasciati senza rinforzi e senza munizioni si arrendono agli estremisti e consegnano loro tutto l’equipaggiamento militare – lo stesso fornito dagli americani in molti casi – in cambio della vita. Così la guerriglia sta cavalcando una valanga in via di ingrossamento che porta verso le città più grandi del Paese.

Il Governo afghano in questi anni aveva adottato una strategia fallimentare: aveva deciso di proteggere le città e le grandi arterie e non aveva investito, in termini militari, nella difesa e nella caccia ai talebani nelle immense aree rurali del Paese. Il risultato è stato che i talebani hanno infestato le campagne e ora, da padroni della situazione, si affacciano sulle strade che portano verso la capitale e verso i centri urbani. Ora, non è così scontato che i guerriglieri un giorno riescano a conquistare di nuovo Kabul e altre città, perché è vero che stanno facendo grandi progressi nelle zone rurali, ma i centri urbani sono molto meglio difesi. Ci sono molti afghani che non hanno alcuna intenzione di tornare a vivere sotto il controllo dei talebani e si stanno organizzando in milizie con lo scopo di fare quello che l’esercito non riesce più a fare: contenere i guerriglieri. Prima dell’arrivo degli americani il nord del Paese si era già organizzato in questo modo e resisteva da solo agli estremisti, è molto probabile che vedremo di nuovo una spaccatura simile dell’Afghanistan. Settimana scorsa anche il generale americano, Austin Miller, ha ammesso che il rischio della guerra civile nel Paese è dietro l’angolo.

Gli americani hanno ammonito: se i talebani continuano a fare pressione e ad avanzare, rallenteremo il ritiro. Alla Casa bianca si rendono conto che la fine della missione militare in Afghanistan dopo vent’anni di cosiddetta «guerra senza fine» piace agli elettori, ma se ci fossero massacri quando ancora i soldati americani sono nel Paese allora la storia comincerebbe a essere raccontata come una scommessa perduta in politica estera. Inoltre il Governo di Kabul si sta guardando attorno. Se gli americani e la Nato se ne vanno, ci sarà qualche altro Paese che avrà interesse a mantenere una presenza militare in Afghanistan in cambio della posizione – che è strategica, in mezzo all’Asia – e della possibilità di sfruttare le risorse. La Cina, la Russia o l’Iran potrebbero tendere la mano a Kabul, anche per combattere contro il vivaio prossimo venturo di estremisti che si sta creando così vicino a loro.