La primavera che non arriva

Tunisia – L’unico esperimento riuscito di primavera araba (2011) sta naufragando: diverse città del Paese sono in rivolta per le nuove misure di austerità volute dal governo, che dal primo gennaio ha aumentato le tasse su tutto
/ 22.01.2018
di Marcella Emiliani

Con una metafora cinematografica potremmo dire che si tratta di «salvare il soldato Ryan» cioè di tenere in vita, con la Tunisia, l’unico esperimento riuscito di primavera araba in Medio Oriente. O, per essere ancora più chiari, di garantire un futuro decente all’unica democrazia partorita dallo tsunami delle rivolte del 2011 nella regione. Il settimo anniversario della cacciata del dittatore Ben Ali cadeva il 14 gennaio scorso e ormai da una settimana erano in corso in tutto il Paese manifestazioni, sommosse e relativi scontri con le forze dell’ordine. In piazza c’erano folle di giovani per nulla intimoriti dal pugno duro usato dal governo di Chahed Youssef per reprimere le loro proteste, tanta era la rabbia per «l’ingiustizia economica» che sta divorando la società.

In Tunisia come nel resto del mondo, l’ingiustizia economica è il vero prodotto dell’enorme crisi che ci ha afflitto dal 2008 ad oggi. E non è ancora finita. La forbice tra ricchi e poveri si è allargata in maniera plateale e ovviamente ha messo in ginocchio i ceti più deboli. Nel caso tunisino i giovani senza futuro delle città e delle campagne, nonché la popolazione dell’entroterra e della fascia saheliana meridionale, lontana dall’industria turistica della costa mediterranea che, con un po’ di esportazione, costituisce una delle poche fonti di entrata di valuta estera. Più di tanti altri paesi affacciati sulle due sponde del Mediterraneo, la Tunisia ha un’economia a due velocità e, quando i settori trainanti soffrono, quelli che partono svantaggiati sanguinano addirittura.

Così, quando il primo gennaio è entrata in vigore la legge finanziaria del 2018, le piazze hanno cominciato a muoversi per poi esplodere in una protesta così diffusa da essere addirittura disseminata in aree, città e villaggi che non si erano mobilitati neanche nella primavera dei gelsomini del 2011. Sono stati coinvolti non solo quartieri di Tunisi, ma Jelma, Djerba, in cui è stato appiccato il fuoco alla sinagoga ebraica, Tebourba che ha registrato l’unico morto negli scontri con la polizia, Sidi Bouzid, da cui proveniva il martire della primavera del 2011, Meknassy, Kasserine, Thala, Gafsa, sede della più grande industria dei fosfati tunisina. Il totale degli arrestati ufficialmente è di 800 persone, cifra sottostimata come spesso succede.

In parole povere col capodanno in Tunisia sono rincarati tutti i carburanti, diversi beni alimentari, il bollo degli autoveicoli, le chiamate telefoniche, internet, persino le prenotazioni alberghiere e in sovrapprezzo è stata introdotta l’Iva, con un aumento di spesa pro-capite calcolato in 300 dinari al mese, più o meno 100 euro. Visto che il reddito medio annuo dei tunisini è di circa 2900 euro, l’esborso diventa molto pesante e la rabbia perfettamente comprensibile. All’inizio a dare il la alla rivolta del tutto pacifica e spontanea sono stati proprio i giovani, ma visto il dilagare delle proteste sono presto scesi in strada anche la potente centrale sindacale Ugtt (Union générale tunisienne du travail) guidata da Nouredine Taboubi e il Fronte popolare di Hamma Hammami, la coalizione di nove partiti di sinistra, o quel che ne resta, che praticamente guida l’opposizione alla troika di governo composta da Nidaa Tounes (Appello della Tunisia) del presidente della Repubblica Beji Caid Essesbi – 86 seggi su 217 nel parlamento unicamerale –, Ennahda, (il partito islamico Movimento per la rinascita, 69 seggi) e l’Union patriotique libre del tycoon Slim Riahi (16 seggi). Il Fronte popolare, peraltro, si era già opposto all’approvazione della finanziaria del 2018, varata il 10 dicembre dell’anno scorso con 137 voti favorevoli su 217, che praticamente è basata sul programma di aggiustamento strutturale imposto alla Tunisia dal Fondo monetario internazionale per l’erogazione di un prestito di 2,8 miliardi di dollari spalmato su quattro anni, in cambio di drastiche riforme economiche. Il ricorso alla grande agenzia di credito internazionale si è reso necessario il crescente debito pubblico che sta affondando l’economia del Paese, balzato dai 55’921,5 milioni di dinari del 2016 a 67’256,5 milioni del 2017.

Il premier Chahed Youssef in un primo momento ha tentato di tenere calma la popolazione assicurando che il 2018 sarà l’ultimo anno di «sangue e lacrime» per il Paese», ma ovviamente la popolazione questi discorsi non se li vuole sentir fare. Soprattutto, nei sette anni che la separano dalla primavera dei gelsomini, pur essendo fiera della propria democrazia conquistata, ha perso fiducia nella classe dirigente o sarebbe meglio dire che la classe dirigente, islamici inclusi, ha perso in parte di credibilità non solo perché lo sviluppo e il benessere non arrivano, ma il parlamento ha approvato leggi molto impopolari come quella detta «della riconciliazione» che condona gran parte delle pene per i corrotti dell’era Bel Ali. Per essere precisi la legge, approvata il 13 settembre 2017 ha praticamente amnistiato tutti gli alti papaveri e burocrati di Stato del periodo della dittatura, implicati in mala gestione dei fondi pubblici, non in casi di appropriazione illecita e corruzione conclamata. Per i ladri e i corrotti inveterati è stata prevista la cosiddetta «risoluzione amichevole» che alle nostre latitudini si chiamerebbe patteggiamento, con restituzione del maltolto in misura decisa da un’apposita commissione ministeriale. La legge, votata nella speranza di rimpinguare un po’ le casse dello Stato e favorire una sorta di pace sociale ha invece indispettito in alto grado l’opinione pubblica che ha addirittura dato vita a un movimento non disponibile a far passare in cavalleria i peggiori latrocinii dell’era Bel Ali, tant’è che si chiama «Non perdono».

 La corruzione, infatti, è un’altra delle piaghe endemiche della Tunisia, alimentata e gonfiata dalla crisi economica internazionale che – come dicevamo – ha già prodotto la più grave sperequazione economica tra i ceti sociali mai registrata in epoca contemporanea. Così non meraviglia che i giornali locali, proprio il 14 gennaio, anniversario della fuga di Ben Ali nel 2011, abbiano registrato commenti di massaie al mercato di Tunisi che gelidamente facevano notare: «Qui tutti arraffano e a noi non rimane niente», oppure «Quando c’era Ben Ali pranzavo con 10 dinari e adesso me ne servono almeno 50. La situazione è davvero peggiorata di brutto».

Tra il 9 e il 14 gennaio la rabbia popolare si è scatenata soprattutto di notte quando non meglio identificati «facinorosi» hanno dato fuoco a cassonetti e barriere improvvisate contro la polizia in quartieri periferici della capitale e piccole città come Tebourba in cui ci è scappato il morto, un uomo soffocato dai gas lacrimogeni. Indubbiamente la reazione del governo e delle forze dell’ordine, esercito compreso, è stata molto dura ma non dobbiamo dimenticare che la Tunisia è il paese che ha fornito il più alto numero di foreign fighters (6000) al Califfato islamico o Isis che dir si voglia nel triennio del suo fulgore, dal 2014 al 2016. Tutti giovani che, se non sono morti, sono tornati in patria o cercano un ingaggio in quel nuovo serbatoio-incubatrice di terrorismo islamico che è diventato il Sahel. È comprensibile, dunque, il timore delle autorità, preoccupate di tenere sotto controllo la situazione prima che venisse strumentalizzata o fomentata in senso ancor più violento dai salafiti radicali o dai simpatizzanti del terrorismo islamico. La Tunisia, infatti, è in stato d’emergenza dal 2015, anno dei peggiori attentati al Museo del Bardo Tunisi e sulla spiaggia vicino a Sousse, rivendicati dall’Isis.

Se la situazione non è degenerata in maniera drammatica, in parte il merito va ai servizi d’ordine dell’Ugtt, la centrale sindacale, che appoggia il governo di Chahed Youssef ed è dunque interessata a mantenere pacifiche le proteste ma anche e soprattutto a non far affogare nella repressione le giuste proteste della popolazione. Dal canto suo il governo non ha mai negato la legittimità delle manifestazioni, ma – come Rouhani in Iran – ha stigmatizzato la violenza fino a che, il 14 gennaio, è ricorso a misure di emergenza non proprio in stile Fondo monetario internazionale, stanziando 70 milioni di dinari a favore delle classi più disagiate. Ma la rabbia e la protesta popolare, anche se sono diminuite di intensità, sono pronte a riesplodere alla prima occasione. È un altro fiume carsico, fra i tanti pronti a riemergere nel Medio Oriente di oggi.

Ma, si chiedono gli osservatori, la primavera dei gelsomini è in pericolo? Commenti autorevoli sulla stampa internazionale si sono spaccati in due filoni. Chi sostiene a spada tratta che la fiammata con cui è iniziato il 2018 in Tunisia altro non sia che la classica reazione al programma di aggiustamento strutturale imposto al Paese dal Fondo monetario internazionale. Altri, invece, dietro le proteste economiche, vedono tutta la debolezza non solo dell’economia ma della neonata democrazia tunisina, che si porta ancora appresso i timori del passato con una classe politica che troppo spesso sembra risultare inadeguata al momento odierno. La Tunisia, insomma, sta faticosamente lottando sul filo del rasoio.