La prima donna a guidare il governo italiano?

Un ritratto di Giorgia Meloni, da «protetta» di Silvio Berlusconi a guida del partito al comando nei sondaggi
/ 16.05.2022
di Alfio Caruso

Nel dicembre 2012 Giorgia Meloni fondava, nell’indifferenza di tanti, un movimento patriottico fin dal nome, Fratelli d’Italia. La circondavano vecchi arnesi della destra nostalgica, che spesso contavano il doppio dei suoi anni. E se costoro non avevano molto da rimetterci, dispersi come erano dentro il Popolo della libertà berlusconiano, Meloni appariva l’unica che avesse da perdere e non poco. Appena trentacinquenne, con un’esperienza triennale da ministra della Gioventù nell’ultimo governo Berlusconi (2008-2011), era il nome nuovo della destra, l’acclamata sostituta di Gianfranco Fini, travolto politicamente dalla ribellione contro re Silvio e umanamente dall’ingordigia dei familiari e della moglie, culminata nella sottrazione al partito dell’attico di Montecarlo, regalo di un’anziana sostenitrice. Ma Meloni non accettò di starsene a cuccia di Berlusconi, malgrado gli dovesse le principali tappe della propria carriera. La rottura avvenne sull’appoggio del PdL al governo presieduto dall’economista Mario Monti durante la peggiore crisi della repubblica. Le elezioni del 2013 consegnarono a Meloni meno del 4% dei voti. Da lì, però, incominciò la lunga marcia, che la porta oggi a guidare il partito al comando nei sondaggi (22,6%), coccolato dall’inestinguibile classe degli arrampicatori che hanno già formato file infinite per salire sul carro di Giorgia.

Un simile successo è frutto della sua coerenza nell’attivare un’opposizione intransigente, spesso in contrasto con le manovre saltabeccanti di Matteo Salvini (Lega) e Berlusconi, ma ancor più è frutto della sua abilità politica. Meloni, a parole, ha rotto con la fastidiosa eredità del ventennio di Mussolini, mentre nella pratica continua ad accoglierne gli accoliti, i nipotini irredimibili. Di conseguenza Fratelli d’Italia non partecipa alla celebrazione del 25 aprile, in cui si omaggia la Resistenza e la vittoria sul nazifascismo; i suoi rappresentanti nelle amministrazioni rilanciano il vecchio slogan «Boia chi molla!»; i raduni e le commemorazioni sono caratterizzati dal saluto con il braccio alzato, spesso accompagnato dall’ovazione squadristica «eia, eia, eia alalà». Un armamentario datato, tuttavia ben conosciuto da Meloni. A 15 anni infatti aderì al Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano, fondato negli anni Quaranta dai reduci del fascismo. Una scelta maturata nel popolarissimo quartiere romano della Garbatella, dove lei e la madre traslocarono dopo l’abbandono del padre Francesco, commercialista trasferito alle Canarie per rifarsi una vita. Furono anni di formazione molto duri, di contrapposizione anche violenta con i movimenti di sinistra. A Meloni servirono per conquistare il rispetto dei giovani camerati e per imparare l’equilibrio fra il rinnovamento impostato da Fini e la coltivazione, magari lontano da occhi indiscreti, dei vecchi rituali. Di conseguenza, sparito Fini, l’anima radicale della destra accolse convintamente la sua ribellione alla supremazia berlusconiana. I risultati sono stati superiori a ogni aspettativa: ha soprattutto pagato l’intelligente decisione di non aderire al governo di salute pubblica varato da Sergio Mattarella con Mario Draghi. Fratelli d’Italia è così diventata l’unica forza di opposizione, prontissima ad assurgere a voce contraria nella gestione della pandemia e più ancora dei vaccini: no-vax e no-pass sono corsi a ingrossarne le file trasformandola, almeno nelle intenzioni, da terza ruota a mosca cocchiera del raggruppamento.

La partecipazione di Salvini e Berlusconi al gabinetto Draghi, con gli immancabili compromessi rispetto ai programmi iniziali, ha consentito di attingere fra i delusi della Lega e di Forza Italia i tanti voti della sua attuale supremazia. Pure la pubblica contrarietà di Meloni alla seconda elezione presidenziale di Mattarella ha permesso di mettere all’angolo Salvini, che ha finito con l’accettare la soluzione deprecata fino al giorno prima. Per Meloni ha rappresentato la vittoria più vistosa. Tale da indurre lo stesso Salvini a ipotizzare una federazione con Berlusconi – la Lega è data al 15%, FI all’8% – per scongiurare l’affermazione di Fratelli d’Italia e consentirgli di competere per il primo posto all’interno della coalizione. L’antico patto – ammesso che sia ancora valido – prevede che il segretario del partito più votato sia anche il presidente del consiglio in caso di vittoria. Però i sondaggi più recenti per le elezioni della primavera 2023 sostengono che il trend ascensionale di Fratelli d’Italia sia così lanciato da collocarlo al di sopra anche della federazione Lega-FI. Insomma, Meloni sembra avere tutte le chances per essere la prima donna in Italia a guidare il governo. E lei da mesi si muove per migliorare l’immagine e far dimenticare i peccatucci ideologici del passato: ha preso le distanze da Marine Le Pen; ha accentuato l’europeismo del fronte conservatore, che presiede a Bruxelles; ha convintamente difeso l’invio delle armi all’Ucraina distinguendosi dal titubante Salvini, prima schierato con il sì, poi con il nì.

Per superare questo stallo fatto di gelosie e di sospetti vengono convocati vertici regolarmente annullati nelle 24 ore precedenti. Ognuno dei tre convitati affetta la massima disponibilità a trovare un punto d’incontro, che immancabilmente si trasforma in punto di scontro. I propositi di larga intesa nascono al mattino e muoiono la sera. Lo dimostra la guerra di religione divampata nell’indicare il candidato sindaco di Palermo e il candidato alla presidenza della Sicilia. Per il primo ha prevalso l’esponente di un partitino di centro appoggiato da Meloni; ma per il secondo i proconsoli berlusconiani preferirebbero perdere piuttosto che riconfermare l’attuale presidente, Nello Musumeci, antico sodale di Meloni. Per lei, comunque, il trabocchetto vero è rappresentato dalla legge elettorale. L’attuale – al 75% proporzionale, al 25% maggioritaria – conforta le sue ambizioni obbligando le forze politiche ad associarsi. Non per niente è allo studio un ritorno al proporzionale puro, che con l’obbligo di ricercare una maggioranza in Parlamento potrebbe bloccarla anche se risultasse la più votata.