Nel momento in cui Aleksandr Lukashenko urla all’intervistatore della Bbc «noi sgozzeremo tutti i bastardi delle Ong che ci avete infiltrato», apre uno spiraglio inquietante non soltanto su quello che accade nella testa del dittatore bielorusso, ma forse anche su quello che sta avvenendo in questi tempi al confine tra Russia e Ucraina, dove l’intelligence di Washington ha rilevato un assembramento di truppe di Mosca senza precedenti sia per quantità che per qualità degli armamenti ed equipaggiamenti. Secondo il ministero della Difesa di Kiev il Cremlino si sta preparando a una nuova guerra, e l’agenzia Bloomberg cita fonti informate per rivelare quello che racconta come un piano ormai scritto: 90-100 mila uomini pronti a sferrare l’attacco a gennaio, sostenuti da artiglieria e aviazione.
Per gli esperti americani, i movimenti di truppe russe non assomigliano a quelli utilizzati tante volte – l’ultima appena sei mesi fa – per ricattare l’Ucraina, ovvero fare pressioni sui vicini e ribadire la «linea rossa» di Mosca sull’avvicinamento di Kiev alla Nato e all’Europa. Stavolta i militari russi si spostano di notte, non in pieno giorno per farsi riprendere bene dai satelliti, e la Russia avrebbe lanciato in segreto una convocazione massiccia ai riservisti in servizio. Il piano d’attacco prevedrebbe un’offensiva contemporanea da tre direzioni: dal centro, attraverso il confine già praticamente inesistente con i territori dell’Ucraina occupati nel Donbass, da sud, dalla Crimea annessa e trasformata in sette anni in una enorme base militare russa, e da nord, puntando su Kiev, dal territorio della Bielorussia.
Esistono numerosi motivi di tanti attori per far uscire questa fuga di notizie, vera o falsa che sia: potrebbe convenire al Cremlino per alzare la posta in gioco nel negoziato più o meno sotterraneo che sta conducendo con l’Amministrazione di Joe Biden. Servirebbe agli ucraini per ricordare agli alleati europei e americani di non poter sopravvivere senza il loro aiuto politico e militare, ma potenzialmente potrebbe essere anche una mossa di Washington per mettere in guardia i falchi di Vladimir Putin, oppure addirittura un complotto delle sempre più fragili «colombe» di Mosca per bruciare quella che, se attuata, sarebbe una catastrofe politica, economica, umana e militare. Quello che colpisce però è che attualmente in territorio bielorusso non sono presenti truppe russe. E che Lukashenko, solitamente molto suscettibile a quello che si dice di lui nella stampa estera, per ora non ha smentito la sua complicità con eventuali piani di invasione dell’Ucraina.
Una base militare russa è stata una delle promesse che Lukashenko ha fatto più volte a Mosca, e che non solo non ha mantenuto, ma ha pure utilizzato per denunciare una «minaccia russa» una volta rientrato a Minsk. È la classica «strategia dei due forni» (ovvero un atteggiamento trasformistico, opportunistico) cui si è dedicato con alterni risultati per tutti i 27 anni in cui detiene il potere. La sua dipendenza da Mosca – energetica e politica prima di tutto, ma la Russia è anche un mercato di sbocco per i prodotti delle obsolete industrie e dell’agricoltura bielorusse – è la chiave della sua sopravvivenza, ma vorrebbe conservare la sua autonomia. Giurare fedeltà al Cremlino per poi agitare lo spettro di una fusione ostile con la Russia a casa, mostrandosi disponibile a un negoziato con Bruxelles per rendere più flessibile Putin. Questo gioco, nella sua semplicità quasi elementare, è stato riprodotto più volte. L’ultima, poche settimane fa, con la crisi dei migranti che Lukashenko ha creato con le sue mani, importando profughi dall’Iraq e dalla Siria per scagliarli contro il filo spinato alla frontiera con la Polonia e la Lituania. Il calcolo era evidente: costringere l’Europa a negoziare con un presidente che non riconosce come legittimo, magari anche ottenendo finanziamenti per tenere a bada i migranti, come Erdogan ai tempi della crisi siriana. E mostrare a Putin che Lukashenko poteva ancora avere interlocutori a ovest e non solo a est.
A ovest non ha funzionato molto, a giudicare almeno dalla rabbia con la quale il «padre» dei bielorussi si è scagliato contro l’intervistatore britannico alla domanda sulla sua telefonata con Angela Merkel. Indiscrezioni berlinesi sostenevano che la cancelliera si fosse piegata al ricatto della tragedia umanitaria e avesse accettato un negoziato con il leader di Minsk, negandogli però il titolo di presidente e rivolgendosi a lui semplicemente come «signor Lukashenko». Le speranze del dittatore di farsi riconoscere le elezioni e togliere le sanzioni per la violenta repressione del dissenso sono state però deluse.
Anche a est non è andata benissimo, specie dopo che Lukashenko ha minacciato di chiudere il gasdotto russo verso l’Europa che transita sul suo territorio. Putin l’ha subito richiamato all’ordine, spiegando ai partner occidentali che il suo collega bielorusso è «un po’ emotivo». Lukashenko ha colto subito il suggerimento, e la sua intervista alla Bbc è stata uno sfoggio del migliore repertorio della propaganda putinista, dalle rivoluzioni fomentate dall’Occidente alle Ong al soldo delle potenze straniere. Non che il dittatore bielorusso non condivida questa visione del mondo, ma un’intervista a una delle più autorevoli emittenti occidentali di solito si concede al contrario per apparire più civile e moderato di quello che si pensa, mentre lo sfogo senza freni di Lukashenko fa pensare che fosse diretto a un altro pubblico. La porta a ovest, dopo il tentativo di creare artificialmente una crisi sfruttando i migranti, si è definitivamente chiusa. E Mosca potrebbe volersi vendicare di questo ultimo tentativo di sfuggire alla sua presa. Anche perché, se davvero sta progettando un attacco all’Ucraina, poterlo scagliare dal territorio della Bielorussia cambierebbe tutto, rendendo Kiev e buona parte del nord e dell’ovest del Paese esposti lungo la frontiera.
La «politica dei due forni» di Lukashenko
Minsk dipende da Mosca ma tenta disperatamente di conservare la sua autonomia. E con la crisi dei migranti, creataad hoc alla frontiera con la Polonia e la Lituania, intendeva mostrare a Vladimir Putin di avere ancora degli interlocutori a ovest
/ 29.11.2021
di Anna Zafesova
di Anna Zafesova