Un interrogativo aleggia sul partito democratico alla vigilia delle elezioni legislative di mid-term, che si tengono questo martedì 6 novembre: che cosa può frenare «l’onda blu» della loro riscossa? L’idea di un’America esasperata e indignata da questo presidente, pronta a castigarlo voltando pagina sull’inaudito «incidente» del 2016, è una tentazione facile. Basta radunare i titoli dei media d’opposizione negli ultimi due anni, basta respirare l’aria di New York o della California, e il verdetto dovrebbe essere pesantissimo per il partito del presidente. I primi sondaggi sull’elezione legislativa di mid-term alcuni mesi fa avevano lasciato sperare che questo fosse vero. Via via che i sondaggi si focalizzano sulle varie circoscrizioni, e i candidati prendono il polso degli elettori, subentra una nuova cautela. L’altra America, quella che non legge il «New York Times» né guarda la Cnn, potrebbe essere protagonista di una rimonta in extremis?
Uno dei segnali lo dà il protagonista numero uno. La saggezza convenzionale consiglia ai presidenti – spesso puniti dagli elettori al passaggio di boa del primo biennio (accadde a Obama, Bush, Clinton) – di tenere le distanze dalle elezioni legislative di mid-term, per evitare che una batosta del proprio partito sia vissuta come una sconfessione dell’azione di governo. Donald Trump fa il contrario, si è buttato nella mischia, fa comizi in giro per il Paese ogni sera, si compiace nel trasformare l’elezione del Congresso e dei governatori in un referendum su se stesso. Il solito narciso egomaniaco, forse. Ma l’istinto lo guida e in passato gli è stato utile. I democratici dell’America «di mezzo», la provincia profonda dove prevalgono moderati e conservatori, osservano con inquietudine i temi che Trump maneggia come una clava nei comizi. L’economia: il suo punto forte.
La disoccupazione è scesa ai livelli del 1969, si sfiora il pieno impiego, i salari salgono più dell’inflazione. Il presidente si attribuisce il merito della crescita ben oltre il lecito, però è vero che i suoi regali fiscali alle imprese hanno fatto rientrare capitali e fornito carburante agli investimenti. La sua dura tattica negoziale ha funzionato con Messico e Canada sfociando in un nuovo accordo di libero scambio che premia gli operai americani.
Altro tema che agita nei comizi: la Corte suprema. L’affare Kavanaugh, il giudice accusato di molestie sessuali quando era adolescente, ha eccitato il movimento #MeToo ma ha avuto l’effetto opposto nell’America conservatrice, donne incluse: dove i fondamentalisti protestanti e i cattolici di destra considerano vitale il controllo della Corte per il suo peso sulle norme etiche e valoriali della nazione.
Infine: l’immigrazione. Il regalo insperato per Trump viene dalla carovana dei profughi partiti dall’Honduras, che si è ingrossata attraversando il Messico, e punta al confine con gli Stati Uniti. La vicenda riaccende tutte le paure che hanno alimentato il trumpismo: quella di un Paese che non è più padrone di decidere chi può immigrare, di una nazione che perde il controllo sui propri confini.
Trump è in lieve risalita nei sondaggi: col 47% dei consensi è due punti più su rispetto a Barack Obama alle sue prime elezioni mid-term (novembre 2010). La sua speranza è un quasi-pareggio: se i democratici si riprendono una maggioranza alla Camera ma con un margine contenuto; se i repubblicani salvano per un soffio la propria maggioranza al Senato, allora il presidente potrà dire di aver limitato i danni rispetto a tanti suoi predecessori che subirono delle débacle.
E se la differenza la facessero le ragazze e i ragazzi? Le abbiamo viste invadere Washington all’indomani dell’Inauguration Day nel gennaio 2017: le giovani erano una maggioranza in quella «marea rosa» che manifestò contro Trump appena 24 ore dopo il suo insediamento alla Casa Bianca (e non era ancora stagione di #MeToo). Li abbiamo visti nelle tante mobilitazioni di #BlackLivesMatter, per denunciare gli abusi della polizia contro gli afroamericani. Li abbiamo rivisti ancora dopo le troppe sparatorie e stragi nei licei, scesi in piazza per chiedere nuove regole sulle armi. Infine nelle sfilate oceaniche dell’Earth Day, il giorno della terra, quando tante città americane sono apparse ultra-verdi, compatte nel condannare il negazionismo climatico della destra. I giovani sono stati in prima linea nelle piazze. Ma lo saranno anche nelle urne? I sondaggi dicono che una netta maggioranza dei Millennials e della X-Generation sono contro questo presidente. Perciò il partito democratico spera in una Youth Wave, un’onda giovanile. In passato queste aspettative furono deluse.
Gli stessi giovani che scendono in piazza, motivati da qualche causa che li appassiona sul momento, «dimenticano» di esistere quando si tratta di mettere una scheda nell’urna. Apatici, scoraggiati, diffidenti? La Youth Wave, se si guarda ai numeri delle passate elezioni, è un miraggio sempre invocato e che non si materializza mai. Anche nel voto presidenziale del 2016 i sondaggi dicevano che la schiacciante maggioranza dei giovani detestava Trump. Però al dunque, degli aventi diritto al voto sotto i 30 anni di età, andarono a votare solo il 43%. Perfino in un Paese che ha un’affluenza alle urne cronicamente bassa, la media nazionale fu del 60% in occasione della sfida Donald-Hillary. I giovani, molto più degli adulti, quel giorno rimasero a casa e la loro assenza fu determinante.
Eppure ai giovani non mancano le ragioni per voler contare, almeno sulla carta. Un problema enorme che li riguarda è il peso dei debiti studenteschi. In una nazione dove l’università costa sempre più cara, milioni di giovani intraprendono la vita attiva oberati di debiti: sono i «prestiti d’onore» erogati dalle banche per pagare le rette accademiche. Barack Obama raccontò che non aveva finito di rimborsare il suo quando era già senatore. Ci vuole un bel pezzo di vita professionale, e ammesso che lo stipendio sia buono, per liberarsi di quell’onere. Lo aveva capito bene il senatore del Vermont Bernie Sanders, il socialista che provò a contendere a Hillary la nomination democratica nel 2016. «Istruzione gratuita» era uno dei suoi slogan favoriti. E infatti i suoi comizi facevano il pienone tra i giovani. Ma Sanders perse la corsa alla nomination. E molti di quei ragazzi e ragazze che si erano entusiasmati per lui, rimasero a casa il giorno dell’elezione.
Ora ci provano anche le pop star come Taylor Swift, a lanciare appelli per la partecipazione il 6 novembre. Sono nati dei comitati ad hoc, finanziati generosamente dai miliardari e milionari liberal: c’è Priorities Usa che ha investito 65 milioni in annunci pubblicitari su Facebook, Youtube e Spotify, per prendere di mira i giovani e incitarli a votare per candidati democratici alla Camera e al Senato. C’è NextGen America, del finanziere Tom Steyer, che ha mobilitato volontari in 40 campus universitari della Florida (uno Stato-chiave, come sempre). Qualche segnale di cambiamento si nota: un sondaggio della Harvard School of Government rileva che le intenzioni di votare sono in risalita. Sarebbero il 40% per i giovani tra i 18 e i 29 anni. Una percentuale modesta e deludente in qualsiasi altra parte del mondo ma non qui negli Stati Uniti. Se andranno davvero alle urne il 6 novembre, sarebbero più del doppio rispetto alle ultime mid-term. E potrebbero, davvero, fare la differenza.
Il protagonista assoluto comunque ha le idee chiare. È l’immigrazione che può fargli recuperare voti cruciali. «Stop all’invasione del nostro Paese. Basta con la libertà provvisoria ai profughi arrestati. Cambierò le leggi sul diritto di asilo. Aumento a 15’000 soldati il contingente alla frontiera col Messico, che respingerà le carovane». Sono gli ultimi messaggi presidenziali prima dell’elezione. Il suo istinto gli dice che nella gara a compattare e motivare la propria base, a raccogliere gli ultimi elettori indecisi, lui ha interesse a drammatizzare il tema. Deve imporlo all’attenzione del Paese, se è vero che su questo l’elettorato repubblicano fa quadrato, e l’affluenza sale. «Dico basta – annuncia il presidente, con la procedura del catch and release, cattura-e-rilascia. Da questo momento si cattura e basta». Il riferimento è al fatto che chi viene arrestato per il solo reato d’immigrazione clandestina, di solito viene rimesso in libertà (sia pure con braccialetto elettronico) in attesa di processo.
Trump indica come una minaccia la carovana partita dall’Honduras, «e altre che si stanno formando dietro quella, piene di criminali». Sferra l’accusa ai suoi oppositori: «I democratici li vogliono accogliere, mantenerli, e dargli anche il diritto di voto». In quanto alle procedure di asilo d’ora in avanti annuncia che saranno accettate solo quelle che vengono presentate ai pochi Port of Entry, quelle città di frontiera che hanno il compito amministrativo di esaminare le richieste. Tutto questo si aggiunge al taglio di aiuti ai paesi del Centro America se non trattengono i migranti; alla promessa-minaccia di abolire il diritto alla cittadinanza americana per chi nasce sul territorio degli Stati Uniti. Quest’ultimo è sancito dal 14esimo emendamento, modificabile solo da una maggioranza qualificata al Congresso. Trump si avvale dei (pochissimi) pareri giuridici che ritengono possibile una diversa interpretazione di quell’emendamento, aggiunto alla Costituzione nel 1868. Ma non importa sapere quanto le riforme annunciate siano fattibili, o che cosa resterà di queste promesse dopo il voto del 6 novembre. A Trump, che gioca d’istinto, interessa pesare sul dibattito pubblico in questi ultimi giorni, dettare l’agenda dei media.