Alla residenza estiva di Castelgandolfo in vacanza non c’è mai andato, men che meno sulle montagne che Wojtyla tanto amava. Stavolta, però, nell’agenda di luglio e agosto del Papa non compaiono neppure viaggi internazionali. Trascorrerà dunque a Roma tutta l’estate, Francesco, e in un momento quanto mai delicato per il suo Pontificato. Le ultime settimane hanno riportato, infatti, alla ribalta le difficoltà di governo per il Papa argentino, che sembra proprio non riuscire a trovare il bandolo della Curia Romana, la cui riforma pure era stata presentata come una delle sue priorità all’indomani dell’elezione.
Due sono stati i principali fronti sui quali Francesco si è trovato a fare i conti con situazioni di crisi: innanzi tutto la Segreteria per l’economia, la scommessa più importante compiuta fin qui da Bergoglio nella gestione del Vaticano. Doveva rappresentare il nuovo corso all’insegna della professionalità e della trasparenza in un ambito finito troppe volte con lo Ior in pericolose zone grigie, incompatibili con la visione dell’economia e della finanza di papa Francesco. Ben conoscendo le insidie dell’ambiente romano, Bergoglio per fare piazza pulita aveva scelto un altro uomo come lui proveniente «dalla fine del mondo», il cardinale australiano George Pell. Lo considerava un duro, capace di mettere ordine in una situazione complicata. Ma non aveva fatto i conti con l’ampiezza dello scandalo pedofilia in una realtà come quella della Chiesa australiana. E ora Pell – dopo essere già stato chiamato in causa per il modo in cui da vescovo aveva affrontato i casi di sacerdoti implicati in abusi sessuali – si trova egli stesso accusato per vicende degli anni Settanta, quando era un giovane sacerdote. Il cardinale respinge ogni addebito, ma il Papa lo ha comunque sospeso temporaneamente dal suo incarico inviandolo in Australia per affrontare il procedimento giudiziario. Pochi giorni prima, inoltre, erano arrivate improvvise anche le dimissioni di Libero Milone, l’ex manager di Deloitte, voluto proprio da Pell per l’inedito ruolo di revisore generale dei conti del Vaticano. In pratica, dunque, nel giro di un mese sono uscite di scena entrambe le figure chiave di quella che avrebbe dovuto essere la riforma delle finanze vaticane.
Nel frattempo, però, è giunto all’epilogo anche un altro strappo in un ruolo ancora più cruciale in Vaticano. All’inizio di luglio Francesco stesso ha deciso infatti di non rinnovare il mandato quinquennale al cardinale tedesco Gherard Müller, voluto da Benedetto XVI come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (l’ex Sant’Uffizio, il dicastero dottrinale incaricato di vigilare sull’ortodossia del pensiero dei teologi cattolici). Müller era stato tra i più critici rispetto alle aperture nei confronti della riammissione ai sacramenti dei divorziati risposati; non si aspettava affatto, però, la mancata riconferma. Tanto più che a settant’anni non ancora compiuti è ben lontano dall’età che il diritto canonico indica per la cessazione dagli incarichi. Alla proposta di Francesco di assumere il compito (decisamente meno rilevante) di patrono dell’Ordine del Santo Sepolcro ha risposto picche.
Ma Bergoglio è andato avanti comunque per la sua strada, nominando come nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede il gesuita spagnolo Luis Ladaria Ferrer, l’attuale numero due del dicastero. Il caso Müller è comunque destinato a restare aperto: il cardinale tedesco non è uomo da opposizione dura; d’ora in poi, però, sarà il punto di riferimento a Roma per quell’ala più tradizionalista della Chiesa, che guarda con sospetto alle «fughe in avanti» di Francesco.
Dunque il Papa superstar a livello mediatico è oggi sempre più isolato in Vaticano? Detta così è ovviamente una semplificazione. Anche perché chi conosce un po’ da vicino i meccanismi della Chiesa cattolica sa che la vera insidia per un successore di Pietro non è mai lo scontro aperto, ma la palude. L’attesa che «l’effervescenza» passi e Santa Romana Chiesa possa ritornare alle abitudini di sempre. La cosa interessante, però, è che papa Francesco sembra averlo capito e forse sta cambiando strategia.
Lo si vede in maniera abbastanza chiara dalle scelte che sta compiendo riguardo alla Chiesa italiana. Nei giorni scorsi è stata la volta di una nomina di peso, quella del nuovo arcivescovo di Milano, il successore del cardinale Angelo Scola, da molti indicato come l’antagonista nell’ultimo conclave, dimessosi per raggiunti limiti di età. Milano è la diocesi più grande d’Europa, i suoi arcivescovi – da Schuster a Montini, da Martini a Tettamanzi – sono sempre stati figure di primo piano nella Chiesa. Ci si aspettava, dunque, un grande nome, in qualche modo simbolico della svolta di Bergoglio per l’episcopato italiano. Invece Francesco ha scelto la continuità, indicando il vicario generale uscente Mario Delpini, il più stretto collaboratore di Scola a Milano; un uomo molto umile, tutt’altro che trascinatore, ma con un requisito per Bergoglio oggi fondamentale: conosce bene i preti della sua grande diocesi. Lo stesso tipo di scelta l’aveva compiuta il mese prima per il suo vicario a Roma, andando a scovare tra i vescovi ausiliari dell’uscente Agostino Vallini il non molto quotato Angelo De Donatis. Per due ruoli chiave non ha scelto ex preti di strada (come aveva fatto in passato), due vescovi capaci di portarsi dietro il clero delle parrocchie; quelli che stanno là dove la gente non trova ancora la Chiesa dal volto diverso che finora ha intravisto in televisione nei grandi gesti di Bergoglio.
Uscire dal pantano con pazienza, ripartendo dal basso: sembrerebbe questa la strada scelta oggi da papa Francesco. Ricominciare dalle parrocchie; non per rinnegare l’idea di una Chiesa «in uscita», ma per realizzarla davvero. Non a caso all’inizio di quest’estate Bergoglio è andato a rendere omaggio a due parroci anomali come don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani. Due che dalla palude non si sono affatto lasciati fermare.