Con il primo ministro etiopico Abiy Ahmed Ali, è la terza volta in sedici anni che un governante africano in carica riceve il premio Nobel per la pace. Nel 1993 toccò al sudafricano Frederik de Klerk – insieme a Nelson Mandela, all’epoca solo un candidato presidenziale; nel 2013 a Ellen Johnson Sirleaf, capo di Stato della Liberia. Infelice il continente, verrebbe da dire, che ha bisogno di tanti premi per la pace ai suoi leader. Ma i casi sono molto diversi, e il Sud Africa dei primi anni Novanta non ha proprio nulla a che vedere, nel bene e nel male, con l’Etiopia del secondo decennio del Ventesimo secolo.
La Liberia è un paese relativamente piccolo, che conta tanti abitanti quanto la città di Roma e ancora sta curando le ferite della devastante guerra civile finita quindici anni or sono. Dal canto loro Sud Africa ed Etiopia sono due grandi Paesi, però difficilmente comparabili. Il primo ha la metà degli abitanti del secondo, ed è all’apparenza molto più ricco. All’apparenza, perché il suo Pil – notevolissimo in termini africani – nasconde un’estrema disuguaglianza sociale.
L’Etiopia, eminentemente agricola (a differenza del Sud Africa), è una nazione povera eppure è oggi uno dei colossi africani. Non solo perché è in forte crescita economica, mentre il Sud Africa stagna. Con i suoi oltre cento milioni di abitanti, la cui età media è inferiore ai 18 anni, e un territorio che è tre volte e mezza quello dell’Italia, è una società traboccante di energia, proiettata verso l’avvenire.
La sua collocazione geopolitica, incastonata al centro della vasta, complessa, fragile e turbolenta regione del Corno d’Africa, le conferisce un ruolo chiave che le potenze globali del pianeta sostengono, accudiscono, per non dire coccolano, come meglio possono. Tanto più che l’Etiopia non è affatto priva di tensioni e minacce anche gravi, tutte sostanzialmente riconducibili alla sua irrisolta questione nazionale. Se infatti il suo passato è glorioso, specie negli anni in cui ha rappresentato una bandiera continentale contro l’aggressione coloniale italiana, il mosaico etnico che la compone resta un fattore di divisione interna che periodicamente – di nuovo anche in tempi molto recenti – esplode in crisi acute.
Tutti i fattori brevemente elencati fin qui, tra loro combinati, concorrono a fare dell’Etiopia un protagonista della scena continentale. E la vitalità, il dinamismo, l’importanza, il grande passato, la grande cultura, le grandi opportunità combinate a un senso di strisciante incertezza che la caratterizzano, hanno trovato una incredibile sintesi nella personalità straordinaria del suo primo ministro, Abiy Ahmed Ali. Arrivato al potere un anno e mezzo fa, è a 43 anni il leader più giovane del Continente. È un Oromo, appartiene cioè all’etnia più popolosa d’Etiopia, eppure sempre esclusa dal potere. Al tempo stesso però la sua famiglia ha origini diverse – sua madre era un’Amhara – e anche fedi diverse, musulmano il padre, cristiana la madre.
È come se Abiy Ahmed conciliasse in sé le diversità etniche e religiose, che con il suo percorso di studi egli si è preparato a risolvere sulla scena nazionale (è autore di una tesi di dottorato sulla soluzione dei conflitti religiosi). La sua relativa giovinezza lo dota di una vasta visione del futuro e fin dalle prime settimane del suo mandato ha varato una raffica di riforme che hanno fatto parlare di rivoluzione. Ha liberato i detenuti politici, abolito leggi liberticide, tolto il bavaglio ai media, favorito il ruolo della donna a ogni livello della vita politica. Dal punto di vista istituzionale e legislativo, l’Etiopia è oggi un Paese molto diverso da quello di inizio 2018.
La sua iniziativa personale per dare conclusione al ventennale conflitto con l’Eritrea è ancora più impressionante e gli ha giustamente meritato il premio Nobel. La guerra, che a cavallo tra i due secoli fu combattuta in maniera totale e al costo spaventoso di decine di migliaia di morti, era ferma, come congelata, ma non risolta. La disputa territoriale che l’aveva originata restava insoluta, i rapporti bilaterali erano a zero, le comunicazioni interrotte. Abiy Ahmed ha teso la mano, ha ritirato la rivendicazione etiopica sul territorio conteso – peraltro piccolo, e privo di qualsivoglia valore economico o strategico – e ha risolto in poche settimane un’amara questione ventennale. È volato ad Asmara, ha abbracciato il presidente eritreo Issaias Afewerki, e sulla sua scia i telefoni hanno ripreso a suonare tra i due Paesi, le frontiere si sono aperte, famiglie separate da una generazione hanno potuto riunirsi.
Se oggi, un anno dopo gli accordi di pace, le cose non vanno bene come potrebbero – i posti di frontiera, ad esempio, sono nuovamente chiusi – la responsabilità è eritrea. Non a caso Afewerki appartiene alla generazione che quella guerra l’ha voluta, mentre Abiy Ahmed aveva all’epoca una ventina d’anni e l’ha subita. E mentre l’Etiopia ha conosciuto sotto la sua guida un’impetuosa liberalizzazione, l’Eritrea resta bloccata nella morsa di una dittatura cupa e ferrea.
Nei pochi mesi del suo governo, il giovane premier ha fatto dell’Etiopia un fattore di pace anche nel più vasto ambito regionale. Ha avuto un ruolo personale diretto nella distensione con l’Egitto, da cui lo divide il contenzioso originato dalla costruzione della grande diga etiopica sul Nilo Azzurro; con l’Arabia Saudita, con Gibuti. È stato protagonista degli accordi tra le fazioni sudanesi (militari contro società civile) e tra i signori della guerra del Sud Sudan.
Ecco perché Abiy Ahmed gode in patria, e anche sulla scena internazionale, di enorme popolarità. Il che non significa che non abbia problemi, o nemici: prova ne è stata l’attentato di cui fu bersaglio nel giugno 2018 e al quale scampò fortunosamente. La vecchia guardia del regime odia le sue riforme liberali; o il fatto che abbia nominato ministro un numero di donne che non ha precedenti nella storia etiopica; o che abbia attivamente contribuito all’elezione da parte del Parlamento della prima donna presidente della Repubblica.
Quanto ai suoi oppositori, alcuni sono stati sedotti dalla sua politica di apertura e di inclusione, e anche dal suo fascino personale, dal carisma. Altri viceversa vedono nelle opportunità che si sono aperte solo l’occasione di aprire nuovi livelli di scontro. Le sfide, insomma, non mancano. E in più regioni del suo vasto Paese le tensioni tra le diverse nazionalità restano alte. Il che non toglie che sia bello e infinitamente interessante, di questi tempi, essere cittadini della grande Etiopia.