La prima tappa della lunga campagna elettorale americana è stata vinta da Kamala Harris, una dei venti candidati democratici che alle primarie di partito si contendono la nomination per sfidare, il 3 novembre del 2020, il presidente in carica Donald Trump. Cinquantaquattro anni, madre indiana e padre giamaicano, senatrice della California, ex procuratore distrettuale di San Francisco e Attorney General della California, prima asio-americana a candidarsi alla Casa Bianca, seconda donna di colore nella storia del Senato di Washington, Kamala Harris è una predestinata che lavora da anni per questo momento. Il 27 gennaio di quest’anno, il giorno in cui ha annunciato di candidarsi a presidente, Kamala Harris ha raccolto ad Oakland, sua città natale, una folla oceanica, che ha colpito anche Donald Trump, solitamente restio a complimentarsi con gli avversari.
Dopo quell’inizio sfolgorante, ha stentato ad emergere tra i tanti candidati, ma il 27 giugno scorso, sul palcoscenico televisivo di Miami, ha dominato il dibattito democratico assestando alcuni colpi potenzialmente letali al grande favorito della competizione, l’ex vice presidente di Barack Obama, Joe Biden. Commentatori e analisti, confortati dalle interazioni social, hanno decretato la vittoria politica della senatrice della California, la quale sta impostando il suo messaggio presidenziale sulla stessa lunghezza di quello obamiano, ovvero fornire soluzioni intelligenti a problemi complessi e mostrare agli elettori un’edificante storia personale di riscatto sociale.
Il momento chiave dello scambio Harris-Biden è stato quando la senatrice ha raccontato la storia di una piccola bambina che faceva parte della seconda annata di studenti che finalmente uscivano dalla segregazione razziale ancora in vigore nelle scuole pubbliche della California: «E quella piccola bambina ero io», ha detto Harris rivolto a Biden che all’epoca aveva espresso dubbi sulla desegregazione forzosa degli scuolabus pubblici, coniando una di quelle frasi che finiscono dritte sulle t-shirt di tendenza e fanno la storia. Harris punta a mobilitare gli elettori di colore, ma anche le donne ancora scottate dalla sconfitta di Hillary Clinton nel 2016, fino a oggi l’unica donna nominata da uno dei due partiti principali alle elezioni presidenziali. Sono sei le candidate alle primarie, oltre a Harris anche le colleghe senatrici Elizabeth Warren de Massachusetts, Amy Klobuchar del Minnesota e Kristen Gillibrand di New York, più la deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard e la life coach Marianne Williamson, tutte tranne quest’ultima fotografate da Annie Leibovitz sul numero di luglio di «Vogue» America.
Ma guai a chiedere alla senatrice Harris di parlare di questioni femminili: «Quando qualcuno mi chiede di parlarmi di questioni femminili – ha detto Harris a «Vogue» – lo guardo, sorrido e dico che sono molto felice di parlargli di economia o di sicurezza nazionale».
Subito dopo il dibattito, Kamala Harris è schizzata in alto nei sondaggi che registrano il consenso degli elettori, superando l’altro favorito Bernie Sanders, senatore socialista del Vermont, e piazzandosi, a seconda delle diverse rilevazioni, al secondo o al terzo posto dopo Biden, assieme alla collega Warren. Oltre ai sondaggi, l’altro elemento di valutazione della popolarità dei candidati è la quantità di denaro raccolto. Anche qui, la senatrice Harris è messa bene: seconda dopo Sanders nella raccolta fondi nei primi tre mesi dell’anno e quinta nel trimestre successivo, dietro Pete Buttigieg, Biden, Warren e Sanders, con un exploit di denaro ricevuto nelle 24 ore successive al dibattito. «Ciò che i dibattiti danno, i dibattiti tolgono», è la regola non scritta delle campagne presidenziali, in particolare di questo ciclo con tanti candidati e ancora altre due tornate di confronti televisivi, il 30 e il 31 luglio e il 12 e il 13 settembre, prima dell’apertura delle urne il 3 febbraio 2020 con i caucus in Iowa.
Ma la strategia di Harris, studiata assieme alla sorella Maya, già consigliera politica di Hillary Clinton, è quella di far pesare negli incontri con gli altri candidati le sue superiori capacità dialettiche, addestrate nelle aule dei tribunali californiani e, più di recente, nelle commissioni al Congresso, dove si è distinta per essere riuscita a mettere in seria difficoltà i membri dell’Amministrazione Trump coinvolti nel Russiagate.
In un Partito democratico che si è spostato molto a sinistra rispetto alla tradizione americana, fino a sfiorare posizioni socialiste, Harris è considerata appartenente all’ala progressista, non moderata, ma nella città più di sinistra dell’Unione, San Francisco, le contestano di non aver assecondato, quando era procuratore distrettuale, la decisione di una corte federale che avrebbe portato alla dichiarazione di incostituzionalità della pena di morte, pur essendo lei contraria alla pena capitale e nonostante (o forse proprio per questo) agli inizi della carriera sia stata sul punto di essere rimossa dal ruolo perché non aveva chiesto l’esecuzione dell’assassino di un poliziotto, limitandosi a chiedere l’ergastolo.
Harris invece è stata decisiva nel processo, nato in California, che ha portato al riconoscimento giurisprudenziale del matrimonio omosessuale. L’accusa, insomma, è di essere molto cauta e troppo attenta a prendere posizioni che non la danneggino nelle più importanti sfide successive: per questo diceva di essere contro la pena di morte a San Francisco, ma evitava di diventarne una paladina quando l’obiettivo era quello di diventare Attorney General di tutta la California convincendo anche elettori meno progressisti di quelli residenti a San Francisco. Alla seconda Convention nazionale di Obama, a Charleston nel 2012, da Attorney General, era stata annunciata come la futura stella del partito indicata personalmente dal presidente, ma il suo discorso fu talmente guardingo e ponderato da risultare noioso ed essere dimenticato seduta stante.
Ora che sta affrontando la sfida più grande, Kamala Harris sembra finalmente più libera di dire ciò che pensa, ma sempre con la circospezione del caso. La strada per arrivare a sfidare Trump è complicata e gli ostacoli sono imprevedibili, ma Harris ha cominciato bene, prendendo di mira il favorito Biden e sovrastando il vicefavorito Sanders. Chi l’ha vista in televisione su quel palco di Miami non ha potuto fare a meno di pensare in che trappola retorica potrebbe catturare Trump l’estate prossima. Tra questi c’era anche Trump.