La fine della Guerra Fredda, al passaggio dagli anni ’80 agli anni ’90 del secolo scorso, segnò il grande ritorno della geopolitica. Per mezzo secolo il mondo aveva vissuto all’ombra della minaccia di un conflitto termonucleare; di fronte alla potenza annientatrice di un missile balistico intercontinentale armato con una testata atomica, i confini degli Stati significavano ben poco. Poi d’un tratto, scomparsa l’Unione Sovietica e venuto meno il «grande gioco» bipolare Usa-Urss, riacquistarono ovunque peso sulla Terra gli interessi particolari, le spinte centrifughe, i rapporti di forza regionali, le sfere d’influenza localistiche. La politica estera dei governi europei parve tornata ai primi del Novecento, agli egoismi e agli attriti tra potenze continentali, e ampie parti del globo si ritrovarono apparentemente padrone del proprio destino, non più irregimentate nella rigida separazione tra i due blocchi.
In quel momento di disordine e disorientamento accaddero tante cose, molti equilibri mutarono, anche laddove nessuno se lo aspettava. In Africa il fatto più inatteso fu la frammentazione della Somalia e la nascita, da quella rottura, di un paio di nuovi Stati che nessuno volle riconoscere. Uno di questi Stati era il Somaliland, un territorio grande poco più dell’Italia settentrionale, semidesertico e assai scarsamente abitato, adagiato lungo la costa meridionale del Golfo di Aden, appena ad ovest del Corno d’Africa. Diciamo subito che il contesto nel quale il Somaliland vide la luce oltre un quarto di secolo fa è oggi del tutto inattuale. Nuovi fattori stanno rapidamente mettendo in crisi la logica della geopolitica. Di questi il più potente e inquietante è senza dubbio il cambiamento climatico in atto nel nostro pianeta.
Gli scienziati, e anche il segretario generale delle Nazioni Unite, hanno pochi dubbi che le ricorrenti siccità e carestie che negli ultimi anni hanno colpito il Corno d’Africa e segnatamente il Somaliland siano dovute al riscaldamento globale. Analogamente alla gittata di un missile intercontinentale, il cambiamento climatico colpisce molto lontano dalle regioni dove esso ha origine, facendosi beffe di frontiere, oceani, catene montuose ed altre barriere politiche o geografiche. Gli effetti dell’emissione massiccia di gas serra nell’atmosfera, cui contribuiscono in maniera determinante le società industrializzate e motorizzate del nord del mondo alle quali si sono aggiunte la Cina e in parte l’India, fanno sentire la loro nefasta influenza in lontanissime società pastorali che sopravvivono in ambienti già ostili e la cui «impronta al carbonio» è prossima allo zero.
Un recente rapporto della Banca Mondiale, divulgato il mese scorso, disegna uno scenario davvero allarmante. Il rapporto prevede che entro il 2050, per effetto diretto dei cambiamenti climatici, 140 milioni di persone si metteranno in marcia in vari punto del globo spinti dal venir meno delle loro già precarie condizioni di vita. Di queste il più gran numero, 86 milioni, abitano l’Africa a sud del Sahara. È uno scenario apocalittico, che minaccia la governance locale e globale del nostro pianeta. Non esiste Stato, organizzazione, potenza logistica o militare in grado di far fronte a una simile catastrofe. Nel presentare i risultati della ricerca, i responsabili della Banca Mondiale si sono premurati di affermare che non è troppo tardi e c’è ancora tempo per impedire il verificarsi di questa cupa profezia. Ma è evidente che al cospetto della possibilità di simili cataclismi, la questione del riconoscimento internazionale di un Paese che conta tre milioni e mezzo di abitanti è una vana quisquilia.
Ma torniamo al Somaliland e al momento della sua nascita nel 1991, che sarà solo il primo dei molti paradossi che contraddistinguono questo «non Paese», del tutto assente dalle cartine politiche del continente africano. La fine della Guerra fredda significò per l’Africa alcuni sommovimenti epocali. Il crollo dell’apartheid in Sudafrica; l’indipendenza dell’Eritrea (e anni dopo, al termine di un lungo processo che però ebbe inizio allora, del Sud Sudan); in buona misura anche la guerra civile ruandese e il genocidio dei Tutsi che ne scaturì: sono tutti grandi eventi storici, alcuni felici altri tragici, resi possibili dalla fine del condominio Usa-Urss sul continente.
La dottrina dell’epoca era fortemente contraria alla concessione di sovranità a nuovi Stati africani, perché si temeva che avrebbe dato luogo a un effetto a catena, dissolvendo le arbitrarie frontiere disegnate in epoca coloniale. Ma qualunque cosa fosse accaduta, tutti erano convinti che non avrebbe coinvolto la Somalia. Rarissimo esempio in tutta l’Africa, la Somalia era un perfetto Stato nazionale: stessa nazione, stessa lingua, stessa religione… Come sappiamo le cose andarono diversamente, il legame clanico si dimostrò più forte di ogni altro vincolo e identità collettiva e la Somalia finì in mille pezzi.
Silenziosamente e senza colpo ferire, ricalcando i confini ed il nome dell’antico Somaliland britannico, il territorio del nord somalo si staccò. C’era negli annali un brevissimo precedente, anche se di soli cinque giorni, in cui il Somaliland era stato in effetti uno Stato sovrano. Finito il protettorato del Regno Unito il 26 giugno 1960, il neonato Paese si era unito volontariamente all’ex Somalia italiana il primo luglio di quello stesso anno. Ora se ne separava altrettanto volontariamente e i fautori dell’indipendenza ritenevano perciò che non avrebbero avuto problemi ad ottenere il riconoscimento internazionale. Ma così non fu. Le diplomazie mondiali ritennero che acconsentendo alla secessione avrebbero allontanato, anziché facilitarla, una soluzione della crisi somala.
Il paradosso più clamoroso di questa storia è che mentre l’ex Somalia italiana, dopo decenni di devastante guerra civile, è ancor oggi un Paese altamente instabile, teatro di ricorrente attentati ad opera delle formazioni islamiste degli al-Shebab, il Somaliland – praticamente senza alcun aiuto internazionale – ha vissuto in pace e serenità per tutto questo tempo. Ha tutti gli attributi di uno Stato degno di questo nome: una bandiera, una moneta, un governo stabile e democraticamente eletto, perfino una certa fioritura economica, dovuta non alla pastorizia o alla pesca, bensì alle capacità imprenditoriali e commerciali del suo ceto mercantile. Ma nessuna ambasciata. Adesso però questo quarto di secolo di quieto vivere ignorato da tutti sta finendo. La terra è riarsa, i letti dei fiumi prosciugati, le piante muoiono, le mandrie soccombono. Come raccontano le foto di Luigi Baldelli, comincia una vicenda nuova e molto triste, nella quale le frontiere non servono più a niente.