La mente, l'anima e il cuore dell'Iran

Tre città in bilico tra oscurantismo e aperture al pensiero contemporaneo
/ 19.04.2021
di Enrico Martino

Un Paese ancora sospeso, a quasi mezzo secolo dalla rivoluzione islamica, tra un crescente desiderio di normalizzazione e un ottovolante geopolitico che anche negli ultimi anni non si è fatto mancare nulla: dalla rottura degli accordi sul nucleare alle nuove sanzioni americane sullo sfondo di guerre più o meno dichiarate lungo tutto l’arco della cosiddetta «mezzaluna sciita», dall’Iraq alla Siria e al Libano, fino al lontano Yemen in contrapposizione all’arcinemico saudita. Una serie di colpi di scena in cui si inseriscono le timide aperture dell’Amministrazione Biden, l’incontro di papa Francesco con il grande ayatollah iracheno Al Sistani, le prossime elezioni presidenziali iraniane del 18 giugno che vedono favoriti i candidati conservatori e il recente patto con la Cina, ormai primo partner dell’Iran, per una cooperazione «politica, strategica ed economica» di 25 anni. Prove di futuro per un Paese spesso indecifrabile perché, come dice un proverbio, la sua mente è a Teheran, l’anima a Qom e il cuore a Isfahan.

La capitale è una spigolosa Los Angeles sciita con le sue Beverly Hills che si fermano ai piedi della muraglia di roccia dei monti Elburz e un’infinita sequenza di quartieri popolari che scivolano verso sud, 600 metri più in basso, ignorando faglie sismiche e fascinosi relitti urbani di ville e giardini. Circa 10 milioni di abitanti, 16 con l’area metropolitana, per una megalopoli che ogni sera un mare di luci trasforma in una mappa sociale, regolare e spendacciona a nord, debole e persa nel buio nelle periferie a sud. Non c’è strada senza foto di giovani martiri sorridenti e barbuti ma un irresistibile appeal occidentale rende le nuove generazioni più interessate a navigare sui social in cerca di influencer di successo che a una «guida suprema». Una foresta di antenne paraboliche, ufficialmente illegali, rendono difficile per le autorità mantenere il monopolio della verità, in un’eterna battaglia tra «guardiani della Rivoluzione» e telespettatori che commentano «quando i guardiani vengono a sequestrarle capiamo che è il momento di cambiare modello».

Un caotico ma vitale sovrapporsi di oscurantismi, ambizioni geopolitiche e feste private, perché «prima si pregava in casa e si festeggiava fuori, ora si prega fuori e si festeggia in casa». Il passato rimbalza negli onirici giochi di specchi del palazzo di Golestan, testimone degli eccessi della dinastia Qajar, mentre l’immensa caverna di Alì Babà del Gran Bazaar – adesso chiusa a causa del Coronavirus – è ancora il regno indiscusso del potere dei bazaari, i commercianti. Gente pratica, liberale in economia e nazionalista in politica che ha finanziato la rivoluzione in un gentleman’s agreement in cui fede e business non ficcano il naso negli affari altrui. Una città dove l’ascesa sociale si trasforma in una scalata non metaforica per avvicinarsi al cielo, al potere e a un’acqua meno inquinata, lungo l’asse verticale scandito dai 18 chilometri di Valiasr, strada cult raccontata dal regista Jafar Panahi in Taxi Tehran al ritmo di cantanti e mullah che sgranano rosari fingendo di ignorare distinte matrone che inveiscono contro qualche autorità. Non a caso si dice che la vera rivoluzione sarà quella in cui i mostaz’afine, «quelli che non possiedono», spingeranno i ricchi oltre le montagne, dentro il mar Caspio.

L’antitesi di Theran è Qom, destinazione obbligata per ogni fedele in cerca di una ziyatrat, un pellegrinaggio. L’hanno definita in molti modi, Vaticano sciita, Oxford islamica, Leningrado della rivoluzione perché qui iniziarono le manifestazioni contro lo scià, ma forse sarebbe ancora un villaggio sperduto senza Fatimah Masumeh, figlia del settimo imam e sorella dell’ottavo, sepolta nell’anno 816 d.C. sotto la grande cupola dorata dell’Hazrat Masumeh. Da allora Qom è una calamita santa che attrae pellegrini e studenti di teologia dall’Oriente, dall’Africa e persino dalla patria del «grande satana», gli Usa, un universo tutt’altro che monolitico dove dogmatici sostenitori della supremazia della religione si confrontano con sofisticati teologi aperti al confronto con il pensiero contemporaneo.

Più a sud un uomo intona un canto struggente nella penombra di un’arcata dell’antico ponte Pol-e Khaju guardando un fiume che non c’è più, lo Zaiandé deviato per portare acqua ad altre città in rapida crescita. Ritorna solo una settimana all’anno per la festa di primavera a Isfahan, «la metà del mondo». Terza città dell’Iran con un’economia industriale, ma soprattutto indiscussa capitale dell’anima di una Persia antica in cui raffinate architetture islamiche sapevano convivere con martiri e demoni della cattedrale armena di Kelisa-ye Vank. Il cuore di Isfahan batte ancora nell’immensa piazza Naqsh-e Jahan, «l’immagine del mondo» costruita nel 1602 dallo scià Abbas il grande, oggi ribattezzata Piazza dell’imam, lo stesso paesaggio urbano descritto nel 1937 nel libro La via per l’Oxiana da Robert Byron: «Isfahan è nel numero ristretto di quei luoghi, come Atene e Roma, che costituiscono una fonte continua di delizia per tutta l’umanità». Dietro la piazza il fiume carsico dell’Iran contemporaneo riemerge in una casa da tè affollata di ragazze scatenate in gare di selfie sotto arcigni ritratti di Ruhollah Khomeini e della guida suprema Ali Khamenei. Perché anche l’ortodossia sciita deve fare i conti con la sofisticata complessità culturale di un Paese capace di metabolizzare persino gli invasori più coriacei. E mai è accaduto il contrario.