La mappa geopolitica del Coronavirus

Sugli europei la pandemia ha avuto un effetto divisivo mentre Usa e Cina l’hanno usata nella sfida per il primato globale
/ 15.11.2021
di Lucio Caracciolo

Il Coronavirus non è solo una tragedia sanitaria, di riflesso anche sociale ed economica. È un tornante geopolitico, di cui è presto per stabilire la traiettoria. Ma gli effetti del Covid-19 sulle competizioni di potere fra i maggiori soggetti geopolitici sono già manifesti. In via di costante mutamento. Premessa: in geopolitica non esiste pandemia. Termine approssimativo, da burocrazia sanitaria. Borderline semantics, nella notazione del dottor Anthony Fauci, il guru americano della virologia diventato celebrità mondiale. Letteralmente pandemia significa qualcosa che tocca tutto il popolo. Ora, abbiamo avuto enormi quantità di infettati (numero imprecisabile) e già oltre cinque milioni di morti in giro per il pianeta, cifra peraltro molto approssimativa per difetto. Ma la maggioranza dell’umanità non ne è stata colpita. Soprattutto – e questo è decisivo per il nostro ragionamento – l’impatto del Coronavirus è stato e resta assai differenziato nel tempo e negli spazi. Gli esperti tracceranno un giorno nei dettagli quella che potremmo già ora chiamare la mappa del virus lag, ovvero i fusi virali che descrivono come la malattia abbia colpito in intensità e modi diversi i vari Paesi. Comprese le massime potenze. Tracciando una sequenza d’infernali giri di giostra virale che infieriscono selettivamente sulle diverse aree del pianeta.

Prendiamo il caso della Cina. Per consenso quasi generale – in Occidente, non a Pechino – l’origine del virus è da rintracciare a Wuhan, probabilmente in un laboratorio cui sarebbe sfuggito per caso. O nel quale, osservano i maliziosi, potrebbe essere stato prodotto nell’ambito di programmi di guerra biologica, salvo finire fuori controllo. I primi mesi del 2020, quando il Covid-19 assurse alla cronaca, furono quindi segnati da una perdita d’immagine della Repubblica popolare, al suo interno stesso (con grave preoccupazione del regime) e nel resto del mondo. Specie in America. Impegnata nella sfida del secolo con la Cina per il primato globale, Washington non si lasciò sfuggire l’opportunità di denunciare il China virus, per bocca dello stesso presidente Trump.

In primavera i ruoli erano invertiti. I cinesi parevano essere riusciti a tenere sotto controllo l’espansione del morbo, con metodi para-militari: controllo capillare del territorio, addirittura dei singoli caseggiati, con largo impiego di forze di sicurezza e di volontari. Super-quarantena organizzata con lo stile del regime. Così rassicurando la popolazione e sedando le sacche di insofferenza e di protesta emerse variamente, alcune persino sui media locali. Contemporaneamente Pechino sfruttava il quasi monopolio delle mascherine per regalarle (o quasi) a mezzo mondo, con notevoli vantaggi di propaganda e di influenza. Specie in Europa.

Quanto agli americani, erano nel marzo 2020 già pesantemente investiti dalla tempesta virale, bagatellizzata da Trump come fosse influenza stagionale. Lo spettacolo tragico della massima potenza mondiale investita dall’epidemia di massa ne esponeva i deficit nel sistema sanitario e assistenziale. Mentre svelava le faglie interne alla federazione a stelle e strisce, ulteriormente scavando la distanza fra le coste liberal e relativamente ricche e la fly over America, cuore diseredato del Paese (almeno nella percezione dei trumpiani, lì dominanti), dove ci si rifiutava sistematicamente all’impiego delle mascherine.

Su noi europei l’offensiva del Covid ha avuto un effetto geopolitico divisivo. Fra i singoli Stati e al loro interno. La regola è stata ciascuno per sé, nessuno per tutti. Con la Commissione di Bruxelles che rivelava al mondo la sua impotenza. Negli Stati federali, poi, le differenze fra le reazioni delle singole entità federate era spesso dissonante, specie nel caso tedesco. Si è però riscoperta, in questa occasione, l’acqua calda della geopolitica: quando la minaccia è grave e generalizzata, le singole comunità reclamano dallo Stato – anche quando ordinariamente vituperato – quella protezione e quelle rassicurazioni che consentono loro di non disgregarsi. Di non precipitare nell’anarchia.

Il virus è anche un rivelatore delle faglie antropologiche all’interno della stessa Unione europea, in particolare fra i Paesi dell’Est – dove il negazionismo sul Coronavirus è più diffuso – e quelli dell’Ovest, di tono generalmente opposto. Molto significativa sotto questo profilo anche la disponibilità a vaccinarsi: ad esempio, le Germanie si confermano due, con 4 dei 5 Laender della ex DDR fra i più refrattari a questa forma di prevenzione, molto più accettata nei Laender occidentali.

Infine, la geopolitica degli aiuti. Fin dall’inizio della crisi si è scatenata una competizione fra chi disponeva di risorse utili a combattere l’epidemia per affiliare a sé con questi mezzi Paesi in difficoltà. Qui gli Stati uniti hanno recuperato posizioni, anche per la scarsa affidabilità del vaccino cinese (Sinovac) e per la modesta disponibilità di quello russo (curiosamente monopolista a San Marino, gratificata da una visita del ministro degli Esteri Lavrov, inviato da Putin). Il criterio è semplice: offrendosi di aiutare un altro soggetto il Paese capace di farlo cerca di includerlo nella sua zona di influenza. La «guerra» continua. L’imprevedibilità del virus lascia aperti tutti gli scenari.