Sarebbero più di cento le stazioni di polizia cinese all’estero. Di queste, la maggior parte sarebbe stata aperta nel corso degli ultimi anni senza dare alcuna comunicazione alle autorità dei Paesi ospitanti. Oggi si trovano nelle principali città dei Paesi occidentali, ma soprattutto in Europa, dalla Spagna alla Grecia – l’unico Paese dove non sono state individuate è la Svizzera. È una rete estesa ed efficace, quella che Pechino ha costruito fuori dai suoi confini nazionali, il cui scopo principale è controllare (e spesso intimidire) la comunità cinese all’estero. Secondo quanto scoperto nelle ultime settimane dai media internazionali e dalla ong spagnola Safeguard Defenders, sono le associazioni di cittadini cinesi residenti all’estero ad inaugurare queste «stazioni». E del resto si tratta ufficialmente di centri di servizi, promossi come luoghi dove poter svolgere pratiche amministrative quali rinnovo patenti e documenti senza doversi rivolgere al consolato. Eppure, dalle immagini online di promozione degli uffici, e pure dalle dichiarazioni ufficiali del ministero della Sicurezza di Pechino, si capisce perfettamente quale sia il vero scopo di queste stazioni: collegare direttamente i cittadini cinesi all’estero con le Forze dell’ordine cinesi in Cina. Una delle priorità della leadership del Partito comunista cinese è infatti il controllo della sua diaspora, perché resti fedele al potere centrale ma anche per evitare che proprio dall’estero possano nascere movimenti di protesta o dissenso.
Pechino nega di aver violato le leggi internazionali, anche se nel frattempo, dall’Italia alla Francia, dall’Olanda alla Spagna, gran parte di questi uffici nel giro di poco tempo è stata chiusa. Ma c’è un problema di fondo, che riguarda i rapporti dei governi occidentali con Pechino. L’opacità del sistema autoritario cinese rende difficile capire quale sia il confine tra le legittime attività di un Paese, anche nel fornire assistenza ai propri cittadini all’estero, e la sua capacità invece di muoversi nel cono d’ombra dell’illegalità attraverso tecniche di coercizione, repressione e controllo. Accordi siglati con il ministero della Sicurezza cinese tre, quattro anni fa, alla luce di quello che è diventato di dominio pubblico, mettono in imbarazzo i governi occidentali.
L’operazione «Fox Hunt» è stata lanciata dal governo di Pechino nel 2014 come una «campagna anticorruzione», ma solo di recente, tramite studi e inchieste giornalistiche, abbiamo capito esattamente che cosa fosse. Dietro al pretesto della corruzione c’è in realtà una più sofisticata operazione per controllare la diaspora cinese e per riportare in patria dissidenti o critici della leadership in Cina. A volte le richieste d’arresto internazionali che Pechino fa all’Interpol vengono bocciate (per esempio, se si nota la natura politica e non giudiziaria del mandato d’arresto), oppure gli accordi di estradizione con altri Paesi sono burocratici e lunghi. E allora, secondo le ricostruzioni di vittime, testimoni e indagini, la Cina passa ad altri metodi. A volte è sufficiente l’intimidazione: le autorità cinesi individuano un eventuale fuggitivo all’estero e lo costringono a tornare in Cina. Molti uiguri, la minoranza islamica e turcofona che vive nella regione cinese dello Xinjiang, sarebbero scomparsi così. Diverse vittime hanno raccontato di ricatti e intimidazioni, e addirittura di minacce contro i familiari rimasti in Cina. E sembra che nessuno sia al sicuro: nel 2018 il funzionario cinese Meng Hongwei era a capo dell’Interpol, il cui quartier generale si trova in Francia. Sparì all’improvviso, dopo essere tornato in Cina per un viaggio di lavoro. Riapparve qualche tempo dopo agli arresti, indagato per corruzione.
È anche per questi motivi che l’apertura di opache stazioni di polizia cinesi all’estero ha messo in allarme i governi occidentali e il mese scorso almeno quattordici Paesi, tra cui Gran Bretagna, Canada e Germania, hanno aperto delle inchieste sulla vicenda. Anche l’FBI in America sta indagando. Durante un’audizione della commissione per la Sicurezza nazionale del Senato, il direttore Christopher Wray, ha detto: «Devo essere cauto a parlare del nostro lavoro investigativo, ma per me è scandaloso pensare che la polizia cinese tenti di aprire un ufficio a New York, per esempio, senza un adeguato coordinamento». L’operazione cinese «viola la sovranità e aggira i normali processi di cooperazione giudiziaria e di applicazione della legge», ha spiegato Wray. A ottobre, subito dopo il Congresso del Partito comunista cinese che ha consegnato il terzo mandato a Xi Jinping, il Dipartimento di Giustizia americano ha annunciato una vasta operazione giudiziaria che ha portato all’incriminazione di tredici cittadini cinesi con varie accuse, dallo spionaggio alla violenza privata contro altri connazionali. Sette persone sono state accusate di aver sorvegliato e molestato la famiglia di un cittadino cinese in America, detto «John Doe-1», nell’ambito di una missione per costringerlo al rimpatrio in Cina. Solo tre mesi prima, il procuratore di New York Jacquelyn Kasulis aveva incriminato nove cittadini cinesi, tra cui un giudice, per aver fatto lo stesso contro un loro connazionale residente in America e la sua famiglia, sempre nell’ambito della cosiddetta operazione «Fox Hunt».





