La lunga mano di Pechino sul Myanmar

Ci sarebbe la Cina dietro la presa di potere della giunta birmana, il blocco di internet e social media nonché il genocidio dei Rohingya. Popolo che con la sua presenza disturba la creazione dei «corridoi economici»
/ 21.06.2021
di Francesca Marino

Il processo-farsa ad Aung San Suu Kyi, la discussa leader birmana premio Nobel per la pace e vincitrice delle ultime elezioni svoltesi nel Paese prima del colpo di Stato avvenuto lo scorso 1° febbraio, è cominciato a porte chiuse settimana scorsa. E dietro le porte chiuse si continuano ad accumulare nuove accuse, alcune fantasiose altre più verosimili, contro la leader della Lega nazionale per la democrazia (Lnd), che ha detenuto il potere fino all’altro ieri.

Non che Suu Kyi, appannata icona di democrazia contro la quale ci sono state proteste in tutto il mondo e petizioni per ritirare il Nobel assegnatole, abbia più la reputazione immacolata del passato. Il sostegno dato ai militari nella persecuzione e nel genocidio dei Rohingya, a favore dei quali la leader non ha mai speso una parola, neppure di generica solidarietà umana, pesa come un macigno. Così come pesano le giravolte ideologiche, politiche e geopolitiche compiute dal suo Governo nei mesi passati. Giravolte che, cercando di mantenere difficili equilibri senza mai prendere posizioni nette in un senso o nell’altro, hanno finito per scontentare un po’ tutti. A cominciare dall’ingombrantissimo elefante nella stanza: la Cina. La Cina che Suu Kyi, tra sorprese e polemiche, aveva scelto come meta del suo primo viaggio all’estero da premier, la Cina che aveva investito moltissimo, sia in termini economici che di immagine, nel costruire una relazione con l’Lnd che però non si era rivelata fruttuosa come sperato. Perché, alla fine, dietro tutta la retorica ideologico-militare del colpo di Stato, si tratta sempre e solo di «corridoi» e di vile denaro. Del China-Myanmar economic corridor in questo caso, e delle preoccupazioni cinesi degli scorsi mesi. Dei 38 progetti sul tappeto, difatti, il Governo del Myanmar, quello eletto in modo più o meno democratico, ne aveva approvati soltanto 9. Non solo: il Governo stava cercando di sviluppare una serie di progetti con l’India, che del disegno espansionistico della Belt and road initiative è la prima e più decisa oppositrice.

Sul tappeto la strada panoramica India-Myanmar-Thailandia, la rete di trasporto e transito multi-modale di Kaladan e una «Zona economica speciale» intorno al porto di Sittwe. Una spina nel fianco dei cinesi che difatti, secondo la maggioranza, sarebbero dietro alla presa di potere della giunta. Le dichiarazioni ufficiali sono state, come da copione, decisamente neutre ed esprimevano «preoccupazione» e addirittura «shock» per lo stato delle cose nel Paese. Però, e anche stavolta come da copione, Pechino ha prontamente bloccato una risoluzione del consiglio di sicurezza delle Nazioni unite che condannava il colpo di stato militare e l’arresto di Suu Kyi.

Non solo. Secondo il think tank australiano Strategic policy institute, per molti giorni dopo il colpo di Stato, quando la giunta aveva già bloccato i voli, aerei non identificati, senza registrazione ufficiale, volavano sul Myanmar trasportando soldati e mercanzie cinesi di genere ignoto. Molto probabilmente armi, sostengono in molti. E, secondo il «Taiwan Times», truppe cinesi sono state avvistate attorno a parecchie città birmane. Il che, dato il modo in cui la Cina progetta i suoi corridoi economici, è del tutto verosimile. Con i lavoratori cinesi arrivano difatti invariabilmente le truppe, per «proteggere» i lavoratori suddetti. Il buon vecchio schema della Compagnia delle Indie orientali reiterato all’infinito, insomma.

Ci sarebbe lo zampino di Pechino anche, secondo i dissidenti, nel blocco totale delle connessioni internet e dei vari Whatsapp e Telegram su cui, verosimilmente, si organizzano le proteste. E anche dietro il genocidio dei Rohingya ci sarebbe la mano della Cina e la «sindrome del corridoio». Le terre abitate dai Rohingya sono difatti, guarda caso, parte essenziale dei progetti cinesi di «sviluppo e connettività». E Pechino, come già accaduto nel Belucistan pakistano, non vuole avere nulla a che fare con conflitti di tipo etnico-religioso. Che possono essere utilmente risolti, secondo la Cina, con la corruzione o, quando questa fallisce, seguendo l’ormai impareggiabile modello dello Xinjiang. Non a caso, ogni volta che è stato suggerito un piano di rientro per i Rohingya, il Myanmar ha proposto di reinsediare gli sfollati non nelle loro aree di origine ma in altre zone del Paese. Lande desolate, in pratica, che hanno il vantaggio di non essere di utilità alcuna per i progetti cinesi.

A parte Aung San Suu Kyi, protetta in certo qual modo dalla sua fama, dal colpo di Stato del 1° febbraio sono state arrestate circa cinquemila persone di cui non si ha notizia e che difficilmente otterranno un processo, per quanto farsesco, come Suu Kyi. Invece i morti sono circa 900. La giunta apre il fuoco sui dimostranti o su semplici passanti che hanno la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, uomini, donne o bambini che siano. Mentre riprenderà presto, a quanto dicono, il contestatissimo progetto di costruzione di una diga con centrale idroelettrica a Myitsone, nel nord del Myanmar. Sponsorizzato, guarda caso, dalla Cina.