In ogni guerra ci sono battaglie strategiche e battaglie simboliche. Quella di Bakhmut, la cittadina nel Donbass, a 40 chilomentri da Kramatorsk ormai ombra di sé stessa, è diventata ormai solo una battaglia simbolica. L’area intorno a Bakhmut è stata l’unico segmento del fronte in cui la Russia ha ottenuto notevoli guadagni durante un’offensiva invernale che ha visto i combattimenti più sanguinosi da quando è iniziata la guerra. Le forze russe l’hanno quasi accerchiata, resta libera una sola strada che attraversa le campagne da Chasiv Yar e raggiunge Bakhmut, una strada che taglia una pianura ed è perciò esposta al fuoco russo. Una settimana fa sul ciglio della strada, all’entrata della città, c’era la carcassa in fiamme di un van usato come ambulanza, serviva a portare via i feriti. O meglio, avrebbe dovuto farlo, se non fosse stata colpita da un razzo russo che ha disintegrato il mezzo e ucciso chi lo guidava. Il cadavere, carbonizzato, giaceva dopo giorni ancora accanto al mezzo.
Si presenta così l’entrata di Bakhmut che, prima della guerra, contava 70 mila persone. Nella laboriosa città del Donbass oggi ne resistono ancora a malapena 5 mila, per lo più anziani che non vogliono abbandonare le loro case: troppo vecchi, troppo poveri o troppo malati per pensare ad un’alternativa. E poi, certo, chi aspetta i russi, e sono loro i civili più temuti dall’esercito ucraino che tuttavia non smette di aiutarli portando cibo, acqua e medicine pur sapendo che tra i civili rimasti lì si nasconde di certo qualcuno che li tradirà.
Chi è rimasto vive, nell’inverno rigidissimo dell’est Europa, a temperature che possono scendere a meno 10 gradi e a Bakhmut non c’è acqua né gas da ormai sette mesi. È diventato pericoloso anche andare a prendere le taniche ai pochi punti di distribuzione rimasti perché gli assembramenti di persone sono visibili dai droni e quindi pericolosi. Per questo i civili raccolgono la pioggia o raccolgono la neve, aspettano che si sciolga, la lasciano bollire per preparare un tè, lavare i vestiti, farsi un bagno, una volta ogni tanto. Tagliata anche l’elettricità e con essa ogni forma di comunicazione, per chiamare i parenti, accertarsi che siano ancora in vita, restano in città due «Punti di invincibilità». Si chiamano così i rifugi dove i volontari mettono a disposizione un generatore di corrente, la linea telefonica e il cibo. È il luogo della sopravvivenza e anche della comunità. Serve a provare a convincere i civili a lasciare Bakhmut prima che sia troppo tardi e a prendersi cura, finché si può, di quelli che comunque non se ne vogliono andare.
Ludmyla è una di loro. È nata in Russia e li ha studiato finché, alla fine dell’istituto tecnico, è stata inviata a Bakhmut per lavorare in fabbrica. Vive qui da 47 anni, qui si è sposata, ha avuto due figli, qui sono nati i suoi nipoti. Loro ora sono al sicuro a Leopoli, lei però non se ne va, troppo anziani sia lei che suo marito – 81 e 86 anni – troppo malati e stanchi. Così Ludmyla aspetta che la battaglia finisca, seduta al freddo di fronte casa, incurante dei colpi d’artiglieria, incurante dell’edificio di fronte a lei che va a fuoco perché colpito poche ore prima, quando i missili russi non hanno risparmiato le zone residenziali.
Ma di residenziale, a Bakhmut, è rimasto poco, perché per difendere la città dall’invasione le unità dell’esercito ucraino hanno trasformato quelle che un tempo erano abitazioni civili in basi militari e costruito decine di chilometri di altre trincee per arginare l’attacco che da mesi sta devastando tutta l’area. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky il primo marzo ha accusato Mosca di non aver avuto scrupoli in battaglia e aver lanciato ondate di uomini al macello, senza riguardo per le loro vite. «È un combattimento durissimo, il più difficile – ha detto – ma la difesa della città resta essenziale». Gli ha fatto eco lo Stato maggiore della Difesa che, lo stesso giorno, in una comunicazione scritta ha sostenuto: «Il nemico continua ad avanzare, l’assalto continua ma stiamo tentando di tenere il controllo di ogni settore del fronte; le forze russe bombardano le prime linee in una campagna di terrore deliberato».
La battaglia di Bakhmut si è presentata feroce dall’inizio ma certamente le ultime settimane stanno mostrando una crudeltà senza precedenti, nella quale si legge anche il senso di una partita tutta interna agli equilibri di Mosca. Nel Donbass a combattere sul fronte russo c’è da mesi la brigata Wagner, una forza paramilitare che lavora con l’esercito russo ma non ne fa parte. Per molti versi è il più grande rivale dell’esercito per le risorse a Mosca, ed è per questa ragione che il suo fondatore e leader Yevgeny Prigozhin si mostra in numerosi video girati dal fronte lamentando di non ricevere abbastanza mezzi dal Ministero della difesa di Mosca, con cui non è in alleanza ma sempre più chiaramente in competizione per accreditarsi il titolo dell’unica vittoria territoriale che la Russia rischia di ottenere dopo mesi. Gli analisti sostengono che gli assalti di Wagner a Bakhmut erano lo strumento del gruppo per creare una narrazione secondo cui Wagner fosse l’unica forza russa ancora in grado di battere gli ucraini. Il gruppo Wagner voleva costruire la sua reputazione sul campo di battaglia in modo da portare a casa una vittoria in grado di influenzare gli equilibri politici a Mosca e Prigozhin vuole, o almeno vorrebbe, intestarsi questa vittoria per dare più forza alle strutture militari parallele a quelle della Difesa ufficiale di Mosca.
La lotta dunque, a Bakhmut, continua ma a quale costo di uomini e mezzi? Impossibile avere il conto certo dei morti in battaglia, né l’esercito ucraino né quello russo forniscono dati attendibili, quello che è chiaro, però, parlando coi soldati al fronte, è che qui si sta consumando una carneficina. Un numero di perdite che non corrisponde all’effettiva importanza della città sul piano strategico. Secondo i russi prendere Bakhmut aprirebbe la strada alla completa conquista del resto della regione industriale del Donbass, uno dei principali obiettivi della guerra. D’altro canto, l’Ucraina afferma che il valore strategico di Bakhmut sia limitato, a fronte di troppi morti, perciò negli ultimi tempi la parola «ritirata» è diventata sempre meno un tabù.
È convinzione di molti che sia necessario fare qui quello che è stato fatto la scorsa estate a Severodonetsk. Ritirarsi e salvare vite e mezzi da riposizionare, per battaglie più decisive. Più facile a dirsi che a farsi. Nelle case diventate rifugio e protezione delle unità militari ucraine, i soldati – sia quelli di professione, sia i volontari delle unità di difesa territoriale – stanno attraversando i giorni più duri dall’inizio della guerra, il 24 febbraio 2022. L’artiglieria russa non lascia tregua, pochi secondi separano l’arrivo dei missili verso le posizioni ucraine. Nella base della 93esima brigata meccanizzata Yuri, il comandante dell’unità è deciso: «Abbiamo perso troppi uomini per abbandonare il campo ora. Difenderemo la città ad ogni costo». Intanto, intorno, i suoi uomini continuano a morire per Bakhmut che un tempo era un luogo vivo, abitato da una comunità industriale e laboriosa, e oggi è solo il cimitero di un tempo che non esiste più, fatto di edifici che crollano e case incenerite e disabitate.
La lotta per Bakhmut, ridotta a cimitero
Reportage da una città nel Donbass assediata dai russi dove non c’è acqua né elettricità e la gente aspetta al gelo seduta davanti a casa che la battaglia finisca, con i colpi di artiglieria e dei missili in sottofondo
/ 06.03.2023
di Francesca Mannocchi
di Francesca Mannocchi