Un paese relativamente minore, fino a pochi anni fa sull’orlo del collasso per carenza di cibo, può dare scacco alla massima potenza mondiale e al resto del mondo. Questa è la principale lezione che si può oggi trarre dalle provocazioni nordcoreane, culminate il 29 agosto nel lancio di un missile balistico partito dall’aeroporto di Pyongyang e ammarato nell’Oceano Pacifico dopo aver sorvolato il Giappone. Solo l’ultimo episodio di una lunga sequenza, a quanto pare destinata a continuare e forse a culminare in un conflitto che apparentemente nessuno vuole ma che nessuno sa come evitare.
Alcuni sostengono che il regime di Kim jong-un rappresenta il classico caso del «pazzo con la bomba atomica» narrato in diversi film e libri di fantageopolitica. Qualche elemento di follia, quantomeno di acuta irresponsabilità, è certamente ravvisabile nel dittatore nordcoreano e nel suo clan. Eppure il suo comportamento segue una logica.
L’obiettivo strategico della Corea del Nord è riassumibile in tre punti. Primo, dotarsi di un arsenale atomico credibile, in modo da garantirsi contro aggressioni nemiche, in specie degli Stati Uniti. La lezione che Kim ha tratto dalle vicende di Saddam e di Gheddafi è che chi rinuncia alla Bomba si espone alla liquidazione per mano americana. Oggi il leader nordcoreano sembra già in grado di scongiurare questo rischio, dato il suo avanzato programma nucleare e missilistico.
Secondo, costringere gli Stati Uniti ad abbandonare la Corea del Sud e a limitare la loro presa sulla regione Asia-Pacifico, così elevando il rango della Corea del Nord.
Terzo, riunificare la Corea, costringendo Seul con i negoziati, da tenere con Pyongyang in posizione di forza avendo ottenuto i risultati di cui ai punti precedenti, oppure con la forza, varcando il confine del 38° parallelo, congelato dal 1953.
Avendo sostanzialmente raggiunto il primo obiettivo, quali probabilità ci sono che Kim ottenga anche il secondo e il terzo? Poche, ma non nulle. Soprattutto, per impedirglielo gli americani dovranno comunque pagare un prezzo altissimo.
Abboccando all’amo di Kim, che accompagna ogni provocazione a una tambureggiante retorica, con la sua controretorica fiammeggiante Trump si è ficcato in un vicolo cieco. Non è pensabile che la superpotenza a stelle e strisce accetti come fatto irreversibile di essere sotto la minaccia permanente di missili con testata atomica che nei prossimi anni potrebbero colpire in profondità gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, per impedire il consolidamento di questo scenario dell’orrore, gli Usa sarebbero costretti o a concessioni negoziali indigeribili (venendo incontro alle pretese nordcoreane segnalate al punto due) o a rischiare una guerra dalle conseguenze catastrofiche. Anzitutto per la Corea del Sud: Seul è sotto schiaffo dell’artiglieria nordcoreana, in grado di incenerire la metropoli in qualche ora. Poi per l’alleato giapponese, verso il quale i coreani (tutti, non solo quelli del Nord) nutrono una particolare avversione – ricambiata. Infine e soprattutto per gli Stati Uniti, le cui basi avanzate nell’Asia Pacifico, oltre al contingente schierato in Corea del Sud, rischierebbero di subire perdite consistenti per la rappresaglia nordcoreana. La possibilità di un’escalation nucleare, con il coinvolgimento di altre potenze, Cina in testa, non è affatto da escludere. Inoltre, una guerra preventiva, come gli americani sanno bene, non è mai facile da legittimare sia agli occhi del mondo che di parte dell’opinione pubblica domestica.
Siamo dunque all’alternativa del diavolo. Qualsiasi cosa Trump decida di fare o di non fare, rischia di perdere. Alla fine, le esigenze elettorali potrebbero spingerlo a giocare la carta militare, scenario nel quale usualmente il popolo americano (insieme agli apparati civili e militari) si schiera con il presidente nell’esercizio delle sue funzioni di comandante in capo.
A Washington si spera che la Cina convinca Kim a recedere dalle sue provocazioni. Difficile. Il potere di Pechino su Pyongyang non è così forte come molti decisori americani credono o sperano. Inoltre, anche Xi Jinping è in una tenaglia. Se gli americani attaccassero, preventivamente o in reazione a una intollerabile provocazione nordcoreana (missili su Guam), che cosa può fare la Cina? Nulla, e allora perderebbe la faccia. O dovrebbe entrare in guerra: ma con chi e contro chi? Certo Xi non pensa a uno scontro con l’America, ma le circostanze finite fuori controllo potrebbero suscitare esattamente questo terribile scenario.
Infine, se la Corea del Nord attacca l’America, la Nato che fa? In teoria dovrebbe correre in soccorso degli Usa. In pratica, appare molto improbabile. Sia perché gli americani non saprebbero che farsene degli atlantici, sia anche perché gli europei avrebbero serie difficoltà a convincere le rispettive opinioni pubbliche a mandare i propri soldati a combattere nell’Asia-Pacifico. La recente sortita di Angela Merkel, per cui in ogni caso la Germania non entrerebbe in un simile conflitto, riflette l’umore di fondo degli alleati.