L’hanno scelto più di nove milioni di elettori, oltre un terzo dei votanti, e ora Matteo Salvini si appresta a incassare il dividendo del suo trionfale successo. Si era messo in testa di «cambiare l’Italia e cambiare l’Europa», ma il mancato sfondamento delle forze sovraniste nell’insieme dell’Unione costringe il «capitano» leghista a concentrare l’attenzione sul governo di Roma, di cui il risultato elettorale lo incorona padrone assoluto. I suoi alleati a cinque stelle hanno dovuto registrare un’autentica disfatta, e la voce dell’altro vicepresidente del consiglio, il grillino Luigi Di Maio, si è fatta improvvisamente più flebile.
Non potrà più contrastare la Lega su temi come la Tav, la controversa tratta ferroviaria ad alta velocità di cui il Movimento vorrebbe bloccare la costruzione, o come la flat tax, l’imposta semplificata fortemente voluta da Salvini alla quale i grillini preferivano anteporre misure di assistenza sociale come il reddito di cittadinanza. Ammesso che l’esecutivo giallo-verde sopravviva al terremoto elettorale, il socio ridimensionato dal voto non potrà più permettersi di avanzare riserve sulla dura politica dell’alleato a proposito di migranti.
Salvini promette di sfruttare la vittoria anche a Bruxelles. È vero che l’esito complessivo del voto non consente ai sovranisti, nonostante i risultati favorevoli in Francia, in Italia e altrove, di dettare all’Unione la loro agenda: ma certo questa rafforzata presenza nel parlamento di Strasburgo si farà sentire. In particolare si farà sentire il vincitore del voto italiano. Galvanizzato dal successo, intende promuovere una rivisitazione degli impegni di Maastricht, a cominciare da quel limite del tre per cento del deficit di bilancio rispetto al prodotto interno lordo che ha fin qui frenato le costose politiche promesse in campagna elettorale.
Senza il superamento di quel limite, la flat tax rimane una pia illusione. In ogni caso lo scioglimento, o almeno l’alleggerimento, dei vincoli europei è il primo obiettivo del fronte sovranista. Tuttavia la mancata coincidenza del maggior potere esecutivo conquistato in Italia con l’analoga capacità decisionale che Salvini si proponeva di assicurarsi a Bruxelles ostacolerà la sua azione a livello europeo.
Mani libere, invece, a Roma. «Se un datore di lavoro» disse una volta il capo della Lega «deve evadere le tasse per sopravvivere, non è un evasore ma un eroe». Questa osservazione rappresenta efficacemente la sua visione del mondo e contribuisce a spiegare come abbia potuto assicurarsi il sostegno di un elettore su tre. Salvini sa intercettare le insoddisfazioni e le frustrazioni che serpeggiano in un’Italia afflitta da una permanente condizione di crisi. Così come sa coltivare la paura di fronte a due fenomeni opportunamente sbandierati, la criminalità e le immigrazioni clandestine. Due realtà che il ministro dell’Interno è solito collegare con disinvolta spregiudicatezza.
A suo tempo disse che non bisogna piangere sui «migranti che a Lampedusa vengono disinfettati», ma sui «cittadini di Lampedusa e di Bergamo che poi vengono derubati da chi viene disinfettato». Sono accenti che nei comizi strappano l’applauso, mentre sono seguitissimi i suoi commenti online sull’attualità quotidiana, certo non particolarmente in linea con il ruolo ufficiale (può un ministro della repubblica augurare allo stupratore di turno di «marcire in galera»?), ma capaci di assicurargli quella vasta popolarità che il voto dell’altra domenica ha tradotto in potere.
Al di là di ogni altra considerazione, è il trionfo della politica degli slogan su quella che dovrebbe fondarsi sull’analisi e sulle competenze. Salvini tuona contro l’«invasione» dei migranti, al tempo stesso vantandosi per averla drasticamente ridotta con la politica dei porti chiusi, e non servirebbe a nulla ricordargli che di invasione, cifre alla mano, non è il caso di parlare, visto che la percentuale di stranieri e clandestini in Italia è notoriamente inferiore a quella di altri paesi statisticamente comparabili. Così come non servirebbe citare, sul tema dell’auspicata redistribuzione dell’onere fra tutti i paesi dell’Unione, il paradosso della sua vicinanza a personaggi come l’ungherese Viktor Orban e la francese Marine Le Pen. È vero che costoro la pensano esattamente come lui a proposito delle frontiere sbarrate, ma di partecipare a una equilibrata spartizione degli stranieri non vogliono nemmeno sentir parlare.
Altro tema controverso quello della castrazione chimica che vorrebbe infliggere a chi si rende colpevole di violenza sessuale. È uno dei suoi cavalli di battaglia, elettoralmente pagante a quanto pare, nonostante sia stato obiettato che questa misura, oltre a evocare contesti culturali altri e diversi, sarebbe praticamente inutile.
Nel corso della campagna elettorale che ha preceduto il voto europeo il «capitano» ha sfoderato un’altra arma, quella della religione. I gesti ostentati sulle tribune dei comizi dove agita rosari, sbaciucchia crocifissi e volge gli occhi al cielo invocando il sostegno della Madonna che «ci darà la vittoria», nonostante le imbarazzate proteste di alcune autorità ecclesiastiche gli hanno assicurato altri applausi, e presumibilmente altri voti. Poiché mancano partiti esplicitamente cattolici come fu a suo tempo la Democrazia cristiana, evidentemente Salvini si propone di occupare anche quello spazio.
È una scelta polemica visto che l’attuale capo della Chiesa, papa Francesco, è inviso a buona parte dell’opinione pubblica conservatrice a causa delle sue aperture sociali e dei suoi richiami al dovere dell’accoglienza nei confronti dei diseredati che premono alle frontiere. Non a caso una sua citazione del pontefice, durante la manifestazione che qualche settimana fa ha organizzato a Milano assieme ai capi dei partiti amici d’Europa, è stata salutata da un coro di fischi.
Abile e spregiudicato tribuno, Salvini incanta più il nord che il sud, più i centri minori che le grandi città. Si conferma quella discrepanza fra città e campagna (intesa quest’ultima come parte non metropolitana del territorio) che caratterizza anche altri contesti, dall’America di Donald Trump alla Gran Bretagna della Brexit. Il successo leghista è stato preceduto da una costante e progressiva erosione dei consensi per il Movimento Cinque Stelle, appena attenuata all’immediata vigilia delle elezioni. L’analisi dei flussi elettorali dimostra che questa erosione non si è manifestata soltanto con una fuga verso la Lega ma più ancora con l’astensione, e in piccola parte con un trasferimento di consensi nel Partito democratico.
Il voto conferma infatti una crescente polarizzazione delle due forze di governo e ci si chiede come possano continuare a lavorare insieme. Abbiamo una Lega che guarda sempre più verso destra, un Movimento che oscilla fra la disillusione che ha indotto molti suoi simpatizzanti ad astenersi dal voto, e la riscoperta di una vocazione sociale alla quale i cinquestelle non hanno saputo adeguare l’azione politica. Con un partner che il voto ha reso così ingombrante, l’impresa non sarà certo più facile.