La guerra in Ucraina ha diverse dimensioni. Quella strategica riguarda lo scontro fra Russia e America, per interposta popolazione ucraina. In gioco, per Mosca e per Washington, è l’estensione delle rispettive sfere di influenza in Europa centro-orientale. Dalla fine dell’Unione Sovietica a oggi quella russa è retrocessa fino a ridursi alla Bielorussia, mentre Georgia e Ucraina restano zone contestate. Parallelamente, l’americana s’è estesa fino a poche centinaia di chilometri dal Cremlino. Per Mosca questa ritirata è pericolosa non solo per la potenza ma per la stabilità stessa della Federazione Russa. Per Washington è legittimo e irrinunciabile frutto della vittoria nella guerra fredda. Ma la premessa di tutto è che i due imperi non sembrano né interessati né capaci di trovare un accordo sui rispettivi limiti.
Che cosa ha infatti spinto Putin a invadere l’Ucraina, a parte il desiderio di «riportare a casa» un pezzo essenziale dell’impero russo? La risposta può apparire paradossale: la ricerca di un riconoscimento da parte degli Stati Uniti. L’obiettivo strategico della Russia non è certamente quello di finire junior partner della Cina. È invece quello di essere considerata un attore paritario dall’Occidente, più specificamente dall’America. A questo obiettivo Putin si è dedicato fin da quando è salito al Cremlino, nel 2000. In varie fasi e in modi diversi, persino opposti. Tutti fallimentari. Di qui il paradosso attuale: muovere guerra all’Occidente perché alla fine l’America si disponga a un compromesso accettabile e consideri la Russia un interlocutore legittimo e paritario.
La prima fase della geopolitica putiniana va fino al 2007. E corrisponde al tentativo di contrattare una intesa con Washington per una partnership che assomigliasse molto a un’alleanza. Ipotesi abbastanza fantascientifica dal punto di vista americano, tanto è vero che le richieste paradossali (per l’America) della Federazione Russa di entrare nella Nato erano accolte con sorrisetti sarcastici. La tensione fra Washington e Mosca, cresciuta nella seconda metà degli anni 2000, ha portato nel 2007 alla svolta russa. Il discorso tenuto quell’anno da Putin alla Conferenza per la sicurezza di Monaco, in cui il leader russo ha accusato l’Occidente, e in particolare Washington, di trascurare i suoi legittimi interessi, è stato il punto di rottura. Svolta però solo tattica, non strategica. Visto che un accordo di reciproco rispetto su basi paritarie con gli Stati Uniti si rendeva impensabile, Putin sceglieva un approccio offensivo. La guerra di Georgia, con il conseguente rientro di Abkhazia e Ossezia del Nord nella sfera di influenza moscovita, è stato il primo di una serie di passi che segnalavano il revisionismo geopolitico di Putin. Sempre attento però a evitare una collisione frontale con Washington.
Il 2014 ha inaugurato una terza fase che dura tutt’ora e che è stata inasprita fino al parossismo dall’aggressione all’Ucraina. Putin è stato allora colto di sorpresa dalla rivolta di Euromaidan sostenuta da americani e britannici e dal conseguente colpo di stato che ha messo in fuga il presidente Yanukovich, fiduciario di Mosca. L’annessione della Crimea è stato l’inizio di una controffensiva che ha portato al conflitto nel Donbass. Ma la vera svolta è del 24 febbraio, quando Putin ha scatenato l’aggressione che sta insanguinando l’Ucraina e sconvolgendo gli equilibri europei e mondiali.
Non sappiamo quale sia l’obiettivo tattico del Cremlino in questa fase: fermarsi al Donbass o poco più e determinare una linea di divisione dell’Ucraina in stile coreano? Continuare ad avanzare verso Kiev e annettersi progressivamente l’intera Ucraina o quasi, forse con l’eccezione di Galizia, Volinia e altri territori del nord-ovest dove la presa russa non è mai davvero esistita e non sarebbe mai possibile? Lo vedremo nei prossimi mesi. Quello che è certo è che dal punto di vista moscovita si apre ora una fase di conflitto con l’Occidente che ha spinto Mosca in una sorta di condominio minoritario sotto Pechino.
Non era e non è questo l’obiettivo strategico di Putin. Ciò rivela il doppio errore del presidente russo. Il primo, gravissimo, è quello di essersi illuso (e con lui quasi tutta la leadership russa) di poter essere considerato dagli americani su base paritaria. Il secondo è quello di potervi arrivare non per via di intesa ma sfondando la porta. Entrambi gli errori derivano dalla sottovalutazione della potenza americana e, ancora più grave, dalla sopravvalutazione delle proprie risorse e della propria influenza. Questa guerra è probabilmente destinata a durare a lungo, fra pause e riprese. Ma molto difficilmente, anche fra diversi anni, aiuterà ad avvicinare quello che è l’obiettivo oggi nascosto e invisibile di Putin: essere preso sul serio come partner strategico dall’Occidente e dagli Stati Uniti. Sicché il conflitto in Ucraina potrà produrre fasi di relativa calma o di provvisorio cessate-il-fuoco. Ma la partita strategica fra Russia e America sarà determinata solo dalla resa dell’una o dell’altra.