Nel Settecento il commercio inglese con la Cina fu affidato a due monopoli di Stato, la British East India Company per Londra e la Co-hong con sede a Canton sul versante cinese. Pur senza considerarsi seriamente minacciati, per antica diffidenza e per un riflesso xenofobico gli imperatori celesti avevano imposto severe restrizioni ai mercanti europei. A lungo limitarono l’accesso alla sola città di Canton (quella che oggi si chiama Guangzhou). Perfino lì a Canton gli stranieri dovevano circolare solo nei pochi quartieri a loro riservati, potevano rimanere per il tempo strettamente necessario ai loro affari, poi erano tenuti a tornarsene in fretta a Macao (colonia portoghese) o nell’India britannica. Nonostante queste restrizioni il commercio continuava a crescere, ma in modo quasi unidirezionale. Erano soprattutto gli europei a desiderare la seta e le porcellane dell’Estremo Oriente. A metà del Settecento esplose sul Vecchio continente e nelle sue colonie americane la moda del tè. Indiano e cinese. La coltivazione e produzione di tè indiano avveniva dentro il perimetro dell’Impero britannico, quella cinese no. La Cambridge History riporta queste cifre: l’importazione di tè cinese in Gran Bretagna era già di 400’000 libbre nel 1720. Nel 1800 era aumentata cinquanta volte: fino a 23 milioni di libbre annue. Per pagare tutto quel tè, dall’Inghilterra scorreva verso la Cina un fiume di argento, che a quell’epoca era il metallo prezioso più usato come mezzo di pagamento internazionale per saldare le transazioni con l’estero. Oltre sedici milioni di once d’argento all’anno, erano il tributo che Londra pagava ai cinesi sulla soglia del XIX secolo. Era un problema per la bilancia dei pagamenti, tutto quel metallo prezioso che usciva dalle casse britanniche e finiva nell’Impero celeste. Per riequilibrare i conti bilaterali, gli inglesi le provarono tutte. Chiesero che la Cina riducesse le sue tasse sul tè, che aprisse nuovi porti al commercio estero, che allentasse tutte le regole per consentire la penetrazione di prodotti inglesi. È divertente il parallelismo con le pressioni di Donald Trump su Xi Jinping, perché il mercato cinese di oggi si apra e compri più prodotti made in Usa.
Niente da fare, quelle pressioni britanniche nel Settecento non ebbero alcun esito.
Cito dalla Cambridge History of China: «L’ascesa della Gran Bretagna come una grande potenza navale e un’economia dipendente dalle esportazioni, rese probabilmente inevitabile un conflitto con la Cina, visto che la Cina non aveva alcuna intenzione di organizzare il suo commercio secondo il modello europeo, e la Gran Bretagna aveva la forza per costringerla ad accettare le sue condizioni. Le specifiche circostanze del conflitto, tuttavia, si intrecciarono con il traffico dell’oppio».
L’uso dell’oppio estratto dai papaveri aveva tradizioni antiche in Oriente. In Cina da tempo immemorabile era stato usato come una medicina, per esempio contro la diarrea da colera. Solo nel Seicento, però, dal sud-est asiatico arrivò in Cina la nuova abitudine che consisteva nel fumare oppio mescolato a tabacco. Nel Settecento cominciò l’uso della pipa per fumare oppio puro. La funzione era inizialmente quella di un narcotico analgesico: contro dolori fisici e stress, per alleviare lavori pesanti.
Dava dipendenza e ben presto si scoprirono tutti gli effetti collaterali delle crisi di astinenza per chi cercava di interromperne il consumo: nausea, febbri, crampi e spasmi muscolari. Gli inglesi dopo la conquista dell’India investirono massicciamente nella coltivazione di papaveri da oppio, nella produzione e distribuzione della droga. Presto si accorsero che esportare oppio dall’India alla Cina poteva essere una scorciatoia utile per compensare lo squilibrio della bilancia dei pagamenti. Non riuscendo a vendere in abbondanza sul mercato cinese i prodotti delle manifatture britanniche, cominciarono a darsi al narcotraffico. A capo di questo business c’era una società semi-governativa, comunque strettamente legata alle politiche dell’Impero britannico, la East India Company: le venne assegnato un monopolio sull’oppio indiano.
La Cambridge History traccia la curva esponenziale del narcotraffico di Stato: le vendite inglesi in Cina sono 200 casse nel 1729, mille casse nel 1767, arrivano a 4500 nell’anno 1800. Segue una vera e propria esplosione: diecimila casse esportate nel 1825, quarantamila nel 1838. Le fredde cifre dell’export sono la spia di un flagello sociale, indicano quanto la dipendenza dal consumo di oppio stia diventando una malattia di massa. Nell’anno 1800 l’Impero Qing tenta di correre ai ripari, vieta sia le importazioni che la produzione nazionale di oppio. Nel 1813 il proibizionismo si estende al consumo, un editto imperiale infligge cento frustate a chi viene colto in flagrante, più la condanna a indossare in pubblico una sorta di gogna in legno o collare della vergogna per un mese. I mercanti inglesi trovano il modo di aggirare il proibizionismo e di continuare a far prosperare il business dell’oppio: le loro navi gettano l’ancora al largo della costa del Guangdong nella Cina meridionale, a poca distanza dal porto di Canton, da dove partono piccole imbarcazioni di contrabbandieri cinesi che provvedono alla distribuzione della droga sulla terraferma. Seguendo un copione tristemente noto fino ai nostri tempi, il narcotraffico genera tali ricchezze che i mercanti della morte possono facilmente corrompere le polizie locali. Anticipando vicende dei nostri tempi, già allora in Cina si apre un dibattito sull’opportunità di legalizzare l’oppio per sottrarne il controllo alla criminalità organizzata (e agli inglesi che di quella criminalità erano i veri registi e mandanti). Vince il partito proibizionista.
L’oppio gestito dagli inglesi si rivela essere un autentico toccasana per le finanze del loro impero. I rapporti economici tra Londra e Pechino si ribaltano. L’argento scorre sempre a fiumi, per saldare il conto dell’import-export, ma adesso il deflusso è nella direzione opposta: dall’Impero Celeste a quello della Regina Vittoria. È la Cina a soffrire un pesante deficit commerciale e un’emorragia di metallo prezioso per pagare la fattura del vizio. Nel 1839 il funzionario imperiale Lin Zexu viene nominato (per usare un termine in voga oggi) «alto commissario anti-droga», e inviato da Pechino a Canton, il porto meridionale che è la piattaforma dei narcotrafficanti. Usa il pugno duro, scatena la polizia nei rastrellamenti delle fumerie e nella distruzione di partite d’oppio, chiude magazzini clandestini, fa arrestare 1600 cinesi coinvolti nel traffico. I capi della società Co-hong, l’interfaccia cantonese della East India Company, sono minacciati di condanna a morte.
Ma il problema sono gli stranieri, con i quali è azzardato usare metodi così duri. Lin Zexu cerca di comprarli: offre ai mercanti inglesi di oppio di ricomprargli le scorte di droga e i magazzini pagandoli con una merce pregiata di quel tempo, il tè cinese. Tutto inutile. È a questo punto che, per disperazione, Lin Zexu scrive un appello accorato alla Regina Vittoria: sua maestà si metta una mano sulla coscienza e provi a immaginare la situazione inversa, in cui una potenza straniera viene a distruggere la salute degli inglesi spacciando droghe in gran quantità sul suo territorio.
Ma la «Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda», come recita il suo titolo ufficiale all’incoronazione del 1837, a cui aggiungerà nel 1876 quello di «Imperatrice d’India», dietro la facciata moralista, perbenista, rigorista, ha come obiettivo primario il mantenimento della supremazia inglese nel mondo. Dunque la lettera del funzionario cinese Lin nel 1839 non ha l’effetto sperato sulla sovrana.
Il primo corpo di spedizione britannico salpa dall’India nel 1840 con sedici navi militari e trentuno navi di supporto. È l’inizio della prima guerra dell’oppio. Quando le forze inglesi assediano l’ex-capitale di Nanchino, la dinastia Qing accetta la resa. Il Trattato di Nanchino (1842), oltre a versare un risarcimento di 21 milioni di once d’argento alla Regina Vittoria, taglia i dazi doganali al 5%,impone la cessione dell’isola di Hong Kong e apre agli inglesi ben cinque porti (oltre a Canton ora si aggiungono Xiamen, Fuzhou, Ningbo e Shanghai).
Una seconda guerra dell’oppio si svolge dal 1856 al 1860. Questa viene condotta da un corpo di spedizione anglo-francese. L’episodio che è rimasto più impresso nella memoria storica dei cinesi, potreste ricordarlo anche voi: se avete visitato Pechino e siete stati in uno dei suoi monumenti storici più celebri, il Palazzo d’Estate dell’imperatore, la guida turistica vi avrà certamente raccontato come fu saccheggiato e bruciato nel 1860 dalle truppe anglo-francesi che volevano dare così una dimostrazione brutale della loro superiorità.
Per i letterati cinesi – il nerbo della classe dirigente e dell’amministrazione pubblica – le disfatte nelle guerre dell’oppio, segnano la fine traumatica di un mondo, il crollo di una visione sino-centrica, l’abbandono di ogni senso di superiorità. Dopo di allora la parte più moderna della società cinese ha un’ossessione dominante: capire l’Occidente, imitarci, adeguarsi a noi.
Con l’avvento al potere di Xi Jinping, il nuovo Imperatore Celeste che ha fatto iscrivere il suo nome nella Costituzione e ha tolto ogni limite di durata al suo mandato, si fondono due processi. Il «secolo delle umiliazioni» che iniziò con le guerre dell’oppio è cancellato. La Cina orgogliosa della sua potenza si offre esplicitamente come un modello alternativo all’America, figlia di quell’Impero britannico che usò il narcotraffico per corrompere la civiltà più antica della terra. E il leader supremo di Pechino può trarre da questa rivincita una nuova forma di legittimità: non lo ha eletto il suo popolo, ma la Storia.