La nonna di Alina è a casa, nella periferia di Dnipro – porto fluviale e nodo stradale-ferroviario dell’Ucraina – a preparare sacchetti di cibo per i soldati. Alina prepara invece le coperte e i cuscini, i giochi per bambini e i quaderni per gli sfollati in arrivo dalle città vicine, come Kharkiv, ormai nella morsa dei russi. Le abbiamo incontrate giovedì scorso. Il padre di Alina è filo-russo, lo è da sempre. Per quello Alina non gli parla, ma non da oggi, da questa guerra. Ha smesso di parlargli anni fa, nel 2014, quando è iniziata la guerra nel Donbass, tra separatisti ed esercito ucraino. Quando è iniziata l’invasione suo padre le ha telefonato e le ha detto: preparati a festeggiare i liberatori del paese. Alina ha bloccato ogni possibilità che lui la contatti ancora. Non è solo un dolore, dice, è una vergogna. Questa guerra, o meglio l’invasione russa dell’Ucraina, è anche questa cosa qui: famiglie che si dividono, fisicamente ed emotivamente.
Dnipro è la terza città del paese. Conta un milione e mezzo di abitanti ed è un nodo strategico perché collega il nord – Kharkiv – e il sud – Mariupol – con la capitale Kiev. Quindi conquistarla è una tappa decisiva. La città è militarizzata e pronta alla guerra che potrebbe arrivare da un momento all’altro, via terra o dal cielo. Lo ricordano le sirene che da giorni suonano anche qui, dove i combattimenti non sono ancora cominciati. Suonano a ricordare che la guerra è alle porte. Pericolosamente, perché i russi sono a sud e hanno già colpito (venerdì scorso) la centrale nucleare di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa, una delle dieci più grandi del mondo.
Ogni mattina Dnipro si sveglia facendo il conto delle notizie tragiche. Quanti i morti, quanti i feriti, quanti gli edifici distrutti. Poche notti fa il buio ha portato notizie preoccupanti. La prima: carri armati russi a 90 chilometri a sud e diretti in città. La seconda: gruppi di soldati russi pronti ad essere paracadutati a terra. Per questo l’esercito ucraino è corso ai ripari, minando il ponte che unisce il Donbass alla città. Se conquistano territori a est e Mariupol, Dnipro è una tappa obbligata verso la capitale. Le volontarie come Alina hanno cominciato a organizzarsi per accogliere gli sfollati dalle città assediate, come Parsha, che è scappata da Kharkiv con i suoi cinque figli. Suo marito è al fronte a combattere. Il rumore delle bombe ha fatto tremare i muri di casa, lei è corsa via, diretta qui, a cercare riparo. È stanca, piange. Soprattutto è preoccupata per suo figlio. «Ha da poco compiuto diciotto anni», dice. «Vuole solo studiare, non voglio mandare mio figlio a combattere. Non voglio mandarlo a morire».
Anche gli uomini hanno cominciato a organizzarsi, come Maxym Quriachi, che lavora per una associazione locale che supporta gli sfollati, gestisce la lista dei rifugi antiaerei. Maxym sulla scrivania del suo ufficio tiene una pistola. «Siamo volontari, siamo qui per salvare la nostra gente», afferma. «E non permetteremo a un pazzo invasore di prendere il nostro paese. Sta distruggendo pezzi delle nostre città, ha terrorizzato i nostri bambini, le nostre madri e le nostri mogli. Non ci arrenderemo, non risparmieremo uno solo dei suoi uomini, perché hanno reso l’Ucraina un posto non sicuro per la sua gente. Non saranno perdonati». Maxym, come tutti qui, parla e insieme avverte: «Dovete capire che questa non è più una guerra che riguarda solo noi. Arriverà alle vostre porte, perché Putin non ha più limiti, dovete rendervene conto prima che sia troppo tardi».
Il piazzale adiacente, di fronte alla sede della televisione locale, si è trasformato in un arsenale. Non ci sono fucili, o AK47, ma bottiglie, garze, benzina e polistirolo. Servono a preparare molotov. Natalia coordina una delle unità del mattino, ha 35 anni, qualche giorno fa usciva di casa per andare a lavorare in uno studio legale, oggi viene qui a preparare bottiglie incendiarie. «Siamo tutte persone molto diverse e per lo più estranei», spiega. «Siamo studenti, ingegneri e operai, anziani, padri e madri di famiglia. Ma questa guerra ci ha uniti. Non siamo un esercito e non siamo soldati, siamo civili che fanno quello che possono per impedire a un esercito invasore di distruggere la nostra amata Dnipro». Anche Irina è qui a dare il suo contributo. Ha raccolto le bottiglie in città e si è fatta accompagnare da suo figlio Yaroslov, che ha sette anni, è nato dopo l’inizio della guerra, nel 2014. Anche lui vuole dare una mano, a sistemare le bottiglie degli uomini coraggiosi, così gli ha detto sua madre. Quando ha sentito i muri scossi dalle esplosioni, Irina non ha pensato a scappare, e non ci pensa. «Resto qui, racconta, perché non bisogna fare un passo indietro, bisogna difendere la nostra città e fare passi avanti a cacciare il nemico che è già entrato». Pensa a Kharkiv, la seconda città del paese, le sono arrivati video di soldati russi in città, che perlustravano le strade, assaltavano negozi e distruggevano case civili.
Accanto a un edificio vediamo un cartello che riporta l’«indirizzo per registrarsi e andare a combattere». In città si formano i gruppi di difesa cittadini, civili che si mettono in coda per unirsi ai soldati al fronte. Possono combattere uomini e donne dai 18 anni in poi. All’ingresso ci sono centinaia di persone. Alexander è uno di loro, ha 22 anni, è un dentista, non sa niente di armi. «So che questa è la mia terra e voglio difenderla». Dice di non essere spaventato, ma solo arrabbiato. «Qui, alla Brigata, pensano alle armi. Io porterò la mia rabbia, è tutto quello che serve per sconfiggere i nemici». A sostenere i soldati e i volontari ci sono anche i preti della chiesa ortodossa, i cappellani militari come Konstantin Savchenko. Si reca nelle caserme, al fronte e ai check point perché: «Sostengo i nostri giovani contro un nemico eterno. Mosca vuole renderci schiavi, Mosca è il nostro nemico da secoli, questa guerra è la nostra occasione per porre fine a questa ingiustizia antica, costi quel che costi». Padre Savchenko consuma i pasti insieme ai soldati, supervisiona le trincee e le centinaia di molotov nelle buche lungo la strada. I combattimenti sono alle porte, le truppe russe si stanno avvicinando, i riservisti continuano ad arrivare uno dopo l’altro.
Kiyra, questo è il suo nome di battaglia, imbraccia il suo nuovissimo AK-47, si copre il volto e non esita: «Guardati intorno, tutto è pronto per affrontare l’esercito russo, siamo preparati per il loro arrivo. Li aspettiamo qui, coraggiosi come le guardie di frontiera dell’Isola dei serpenti davanti alle navi russe che volevano entrare nei nostri confini. Ci hanno dato l’esempio: meglio finire prigionieri che arrendersi ai russi».