«La guerra alla droga è fallita»

A colloquio con l’ex consigliera federale Ruth Dreifuss, oggi presidente della Global Commission on Drug Policy, sulla lotta agli stupefacenti nel mondo e su come affrontare l’irrazionalità che si è impossessata della politica
/ 19.06.2017
di Serena Tinari

La stretta di mano è ferma, lo sguardo è diretto. Incontrare un mito nazionale non è certo cosa di tutti i giorni e persino ad una navigata giornalista tremano un poco i polsi. Eppure la vivacità intellettuale e la disponibilità umana di Ruth Dreifuss rendono l’incontro una passeggiata di grande piacere, un viaggio ad alta intensità fra valori e sentimenti. Dreifuss è stata la prima donna a presiedere la Confederazione ed oggi guida la Global Commission on Drug Policy. La missione l’appassiona: «come ha brillantemente sintetizzato il mio collega Kofi Annan: le droghe producono danni, ma la politica in materia ne produce molti di più».

La Commissione mette insieme una pletora di personalità internazionali ed è nata su impulso degli ex presidenti di Brasile, Messico e Colombia. E non per caso: «L’America latina ha pagato un prezzo altissimo in nome della “guerra alla droga”», racconta l’ex consigliera federale. «Nei paesi produttori il regime proibizionista si è tradotto in militarizzazione. Ha innescato guerre civili con un numero enorme di morti, oltre 100’000 solo in Messico, e prodotto effetti devastanti sulla fertilità dei terreni e sulla salute dei contadini, pensiamo alla fumigazione delle piantagioni di coca. Per questo la messa in discussione del proibizionismo è partita da quei paesi e dalla consapevolezza che la “guerra alla droga” ha prodotto violenza e consentito al crimine organizzato di proliferare. È un circolo vizioso: più si proibisce, più si rafforzano le organizzazioni criminali. Più le organizzazioni criminali sono forti e più gravi diventano i problemi. La guerra alla droga è fallita ed è arrivato il momento di prenderne atto».

Per Dreifuss la chiave del cambiamento passa per la prossimità: «Dobbiamo avvicinarci ai consumatori. È per questo che i fondatori della Commissione si sono interessati alle esperienze che hanno attraversato il continente Europa. Misure di prevenzione e riduzione del danno, un approccio medico e sociale». Ruth Dreifuss ha rivestito un ruolo cruciale nella nascita della politica elvetica dei quattro pilastri: prevenzione, terapia, riduzione del danno, controllo e repressione. Oggi tanti paesi scelgono la depenalizzazione del consumo di cannabis. Dal Portogallo al Canada ad una moltitudine di Stati americani: «È un fenomeno recente di presa di coscienza. Eppure persino quanto sta succedendo in un paese influente come gli Stati Uniti non arriva a modificare le convenzioni internazionali, tuttora improntate al più rigido proibizionismo. Facciamo esperimenti, ma non tocchiamo la pietra angolare del sistema. Noi della Commissione crediamo che i tempi siano maturi per cambiamenti profondi. Chiediamo la completa depenalizzazione del consumo e del possesso legati al consumo di droga». Il pianeta oscilla fra tendenze antiproibizioniste e iper-proibizioniste: «Ci sono paesi molto repressivi come Russia, Cina, Iran, Indonesia, Arabia Saudita e Giappone. L’esempio peggiore sono le Filippine», nazioni in cui si arriva alla pena capitale per il possesso di modiche quantità di marijuana. Madame Dreifuss si indigna: «La pena di morte è un abominio. Trovo sorprendente che non si riesca a raggiungere il consenso sulla sua abolizione. Siamo riusciti a bandire lo schiavismo e la tortura, ma non arriviamo a cancellare la pena capitale. Forse la più grave violazione del diritto alla vita, viene massicciamente applicata a crimini legati alle sostanze stupefacenti. Come Commissione ci battiamo contro la pena capitale, è una delle nostre priorità. Perché c’è una totale ed eclatante sproporzione fra la pena e l’impatto del reato».

Diverse città svizzere lavorano a progetti sperimentali sulla cannabis. Ruth Dreifuss saluta la nuova ondata che attraversa Elvezia: «Nonostante non siano ancora del tutto maturi, questi progetti avanzano bene. Credo che possano avere successo, perché c’è grande interesse da parte delle autorità comunali e cantonali. Sono progetti che puntano sulla salute pubblica e a raccogliere elementi che consentiranno al popolo di prendere una decisione sulla regolamentazione del mercato. È fondamentale che il dibattito politico sia nutrito di elementi fattuali. Chi sono i consumatori di cannabis, dove si procurano la sostanza e che qualità trovano sul mercato nero? Sappiamo che la maggior parte dei consumatori utilizza la cannabis a scopo ricreativo, quindi per sentirsi bene. E per mitigare sintomi fisici, dunque per curarsi».

Eppure l’opinione pubblica, prima di accettare l’idea della depenalizzazione e soprattutto di una regolazione del mercato, aspetta di capire quali conseguenze, rischi e miglioramenti porteranno tali riforme.

«Il federalismo talvolta crea soluzioni, tante riforme non si sarebbero mai realizzate se non fosse giunta una proposta “dal basso”. Sulla politica in materia di droghe è cruciale ascoltare le persone che lavorano sul campo, ma anche le famiglie di chi le usa e le persone che oggi vengono discriminate in virtù dell’immagine negativa del consumo. Da questi ambiti sono spesso arrivate soluzioni brillanti. E poi ci sono comuni e città che stentano a gestire la sicurezza e la diffusione di malattie contagiose. All’epoca della nascita della politica dei quattro pilastri ho avuto il privilegio di ereditare il lavoro di Flavio Cotti e dalle colonne del vostro giornale desidero rendere omaggio al suo ruolo nella prima fase di riorientamento della politica svizzera in materia. È vero che alcuni cantoni oggi ritengono di non avere bisogno di soluzioni. Ma forse manca la volontà di guardare in faccia il problema».

Qual è la valutazione di Ruth Dreifuss, quanto tempo ci vorrà perché i progetti sperimentali sulla cannabis si traducano in cambiamenti a livello nazionale? «Sa com’è la Svizzera... se non c’è urgenza, abbiamo bisogno di prenderci del tempo. Negli anni Novanta c’era un’emergenza sanitaria e c’era la perdita di controllo dello spazio pubblico. Pensiamo a Zurigo, quelle migliaia di persone in cerca di droga erano incompatibili con i negozi di lusso della Bahnhofstrasse. Sarebbe stato un errore spingerle nella clandestinità, avvicinandoci siamo invece riusciti ad affrontare il problema e a fornire loro i mezzi per un consumo meno pericoloso. Questo era uno dei pilastri della mia filosofia all’epoca ed è uno dei capisaldi del lavoro della Commissione. Di fronte ad un gruppo di persone vulnerabili il contatto è fondamentale. Non dobbiamo lasciarle nel degrado e nella marginalizzazione, condannarle alla malattia e alla morte. Come dicono le Nazioni Unite: non dobbiamo abbandonare nessuno. Questo deve essere l’obiettivo di una politica ragionevole e umanista».

La Commissione pubblica rapporti che affrontano i nodi politici e la scienza, letture illuminanti disponibili nel sito www.globalcommissionondrugs.org.

Ma se il lavoro della Commissione è basato sui dati e sulla ragione, si tratta di un messaggio per molti aspetti rivoluzionario: «La ragione oggi è purtroppo spesso rivoluzionaria. Viviamo in uno spazio di irrazionalità in cui si arriva a negare fatti reali e si decide in base a delle ideologie. È un mondo abitato da comportamenti distruttivi, che danneggiano l’ambiente e la coesione sociale, e che si spingono fino a una sorta di fascinazione per la violenza. Pensiamo agli attentati, a quelle morti gratuite, alle condanne a morte, alle persone che scompaiono. Non riusciamo ad arginare questi massacri, le cui conseguenze si inanellano in un meccanismo di reazione a catena». 

La Sua generazione aveva negli occhi un mondo diverso? «Eravamo ragionevoli. Ed era un’epoca animata dalla speranza, mentre oggi ho spesso l’impressione che gli esseri umani siano trattati come spazzatura. È come se il mondo fosse impazzito. Non mi aspettavo una tale evoluzione, né che sarebbe giunto un momento in cui tutto sembra a rischio. La storia umana non è un infinito cammino verso il progresso ed è normale che ci siano tendenze dittatoriali e mutamenti politici. Eppure non mi aspettavo di assistere un giorno a questa irrazionalità. Prendiamo la questione dei rifugiati: non avrei mai immaginato che potesse destabilizzare paesi dalla grande solidità economica. O prendiamo il fatto che sulle spiagge francesi ci siano gendarmi per dire alle donne che non hanno il diritto di indossare un Burkini, che più o meno corrisponde ai costumi da bagno delle nostre nonne. Oppure che si dibatta se è giusto che una studentessa porti un foulard. Stiamo parlando di un pezzo di stoffa che non nasconde il viso, ma copre solo i capelli. Le nostre nonne non sarebbero mai uscite di casa senza un cappello o un fazzoletto in testa! Questa irrazionalità mi angoscia, è l’opposto del secolo dei lumi e se è vero che la storia umana non è un fiume tranquillo, oggi assistiamo a una deriva preoccupante. E la reazione a catena allude all’atomica, al rischio di esplosione».

Siamo impotenti di fronte a questi sviluppi epocali? «So quale deve essere l’obiettivo, per cosa dobbiamo batterci. Più dell’ottimismo dell’analisi, mi appartiene l’ottimismo dell’azione. Progresso significa politica sociale e culturale. Il rispetto dell’essere umano, per ogni proprio simile, e il riconoscere il prossimo come qualcuno che mi assomiglia. La diversità è una ricchezza, non è una minaccia. In Svizzera la realtà è che ci sono decine di migliaia di persone, soprattutto donne, che si occupano delle nostre case, dei nostri bambini e dei nostri anziani. E che vivono nel terrore di essere espulse dal paese. Questa è l’ipocrisia che va superata : queste persone ci sono necessarie e sono in grande maggioranza ben integrate. Inoltre, dobbiamo puntare sui giovani immigrati. Sulla loro formazione non possiamo perdere tempo».

È nella lotta per i valori, che trova la Sua ragione di vita? «Anzitutto ci trovo il piacere di percorrere un pezzo di strada con altri uomini e donne. Si tratta di un percorso ricco dal punto di vista delle emozioni. Non direi che queste battaglie siano il senso della mia vita, perché tutte le vite hanno un senso, qualunque sia la scelta che facciamo. Vero è che nella mia vita rintraccio una gradevole coerenza fra la bambina che ero e l’anziana che sono oggi. Negli anni Quaranta ero a San Gallo, alla frontiera con la Germania nazista, ed avevo paura dell’atomica. Da giovane ho assistito alla fine del colonialismo e da adulta alla battaglia di tanti paesi per l’indipendenza. Ma ci tengo a ribadire che tutte le vite hanno lo stesso valore e non sento il bisogno di cercare un senso per la mia. Ho bisogno di coerenza, questo sì. E bisogna anche divertirsi, nella vita». 

E l’aspirazione a fare qualcosa per il prossimo? «Certamente. Ma questo vale anche per una buona cena cucinata per gli amici. Molto meno frustrante. È per questo che adoro lavare i piatti: quando hai finito, sono puliti. Per i risultati di respiro ci vuole più tempo e spesso non sono quelli che speravi. Magari hai fatto un passo, ma puntavi a farne due. Le racconto un episodio. Stamane in tram una persona mi ha parlato di problemi di salute che la costringono a esami e cure mediche. Se non avessimo l’assicurazione malattia, mi ha detto, non potrebbe permettersi la qualità delle cure. Se avessi potuto fare le cose a modo mio quella riforma sarebbe stata diversa. Ma è stato bello occuparsi del bebè di Flavio Cotti. Amiamo i bambini adottati, talvolta li amiamo persino più dei figli naturali».

Informazioni:
www.globalcommissionondrugs.org