«Attacchi anti-semiti contro George Soros? Non sapevo nulla». «Anzi sì, sapevo tutto». Nel giro di 48 ore la numero due di Facebook, la direttrice generale Sheryl Sandberg, si contraddice, smentisce se stessa, e così facendo rilancia alla grande lo scandalo. L’ultima puntata risale al lungo reportage investigativo del «New York Times». Dove si ricostruisce nei minimi dettagli la campagna di lobbying e disinformazione lanciata da Facebook, come controffensiva dopo i numerosi scandali di privacy violata (la vicenda Cambridge Analytica legata alle interferenze russe in campagna elettorale è la più celebre)
Il retroscena rivela una contraddizione enorme tra l’immagine pubblica di Zuckerberg, che andò al Congresso a fare atto di contrizione e a elargire promesse solenni di emendarsi; mentre nella realtà stava montando un contrattacco spietato. Tra le rivelazioni c’è l’impiego presso Facebook della figlia del capogruppo democratico al Senato, Chuck Schumer, uno dei tanti conflitti d’interessi che avviluppano il rapporto tra la sinistra e la Silicon Valley. Non a caso alcune proposte di legge per regolare i social media sono cadute nel nulla, sabotate dalla stessa leadership del partito democratico.
Il risvolto più grave nelle bugie di Sandberg riguarda George Soros. Il celebre miliardario e filantropo liberal è molto critico verso i giganti dell’economia digitale. All’ultimo World Economic Forum di Davos ha denunciato il loro oligopolio come un pericolo per la democrazia. Inoltre la sua fondazione, Open Society, ha finanziato una coalizione di attivisti che combattono lo strapotere del social media, la «Freedom from Facebook». Una vera e propria dichiarazione di guerra, agli occhi di Zuckerberg e della sua direttrice generale Sandberg.
Il «New York Times» ha svelato la reazione di Facebook: aggredire Soros con ogni mezzo possibile. Assoldando una società di consulenza e relazioni pubbliche, la Definers, ben nota per i suoi legami con la destra più radicale. E questa società ha lanciato contro Soros una serie di attacchi assai familiari nella narrazione dell’estrema destra americana, dove riecheggiano da tempo gli stessi temi delle campagne naziste sul «complotto giudaico e plutocratico».
La Sandberg in un primo momento ha smentito di esserne al corrente, poi ha fatto retromarcia, e un po’ di autocritica. «Non era intenzionale – ha scritto su Facebook la top manager – sfruttare una narrazione anti-semita contro Soros o chiunque altro. Essere ebrea è una parte essenziale della mia identità e la nostra azienda è nettamente contraria ad ogni forma di odio. L’idea che il nostro lavoro sia interpretato come anti-semita è abominevole ai miei occhi, e la prendo come una questione molto personale».
L’ultima puntata dello scandalo è arrivata alla vigilia del ponte festivo di Thanksgiving, quando i mercati USA erano chiusi. Mercoledì l’ultima seduta di Wall Street aveva dato un po’ di tregua e un recupero per i titoli hi-tech. Ma nelle settimane precedenti proprio i titoli dei colossi digitali hanno guidato al ribasso i listini azionari. Per Facebook le perdite sono state pesanti e questo rilancia le pressioni di alcuni azionisti per un ricambio totale ai vertici. Zuckerberg è intervenuto a respingerlo nuovamente, smentendo sia la propria uscita sia il licenziamento della sua vice. Ma il senatore democratico Mark Warner ha messo il dito nella piaga: «È importante che Facebook riconosca questo: non ha un problema d’immagine e di relazioni pubbliche, questa è una sfida a tutta la sua piattaforma e modello di business». Sembra lontano il tempo – era appena un anno fa – in cui di Zuckerberg si parlava come possibile candidato alla Casa Bianca, e lui stesso era partito in una tournée esplorativa degli Stati Uniti.
Ma non è solo Facebook ad avvitarsi in una spirale di crisi. Siamo forse vicini alla caduta degli dèi? I signori della Silicon Valley, i Padroni della Rete, i dittatori dell’universo digitale, sprofondano a gran velocità in un mare di guai. Al punto da litigare tra loro, come sempre quando s’intravvede un disastro e la ricerca dei colpevoli si fa urgente. Tim Cook (Apple) accusa Zuckerberg, il quale se la prende con tutti: i suoi collaboratori, la stampa cattiva. Da Facebook prosegue l’esodo di dirigenti. Anche Google come tutti gli altri ha perso circa il 20% del suo valore di Borsa, oltre a sperimentare i primi scioperi nella storia della Silicon Valley. Le fiamme tossiche dei grandi incendi della California, il fumo spesso che per una settimana ha intossicato gli abitanti di San Francisco, sono la metafora di un altro inquinamento. Etico, politico, valoriale.
Nel grande romanzo della Silicon Valley in crisi, per trovare un’ordine cronologico e d’importanza bisogna partire dai soldi. La caduta di Borsa non risparmia nessuno, a spingere gli indici azionari al ribasso sono proprio le star dell’economia digitale, le stesse che avevano trainato i rialzi degli ultimi anni. Il cambio di atmosfera tra gli investitori è brutale, improvvisamente tutti i problemi convergono. Dal calo di vendite di certi modelli di iPhone alla guerra commerciale USA-Cina che minaccia la complessa catena logistica delle multinazionali tecnologiche; dagli scandali politici di Facebook alle multe dell’Unione europea contro Google. Perfino l’unica buona notizia delle ultime settimane, cioè l’apertura della nuova sede di Amazon a New York, è macchiata da polemiche: Jeff Bezos ha estorto esenzioni fiscali così esorbitanti che ogni nuovo assunto «costerà» al contribuente newyorchese 40’000 dollari di mancato gettito. La sinistra del partito democratico attacca quei «liberal» della West Coast che finora l’avevano coccolata.
La storia ha inizio più di un anno fa quando Amazon lancia un annuncio: vuole creare una seconda sede, oltre a quella originaria di Seattle. Non si tratta di uno dei tanti stabilimenti-depositi dove transitano le merci, che danno lavoro a fattorini sottopagati, bensì di un secondo quartier generale che assumerà ingegneri informatici, esperti di marketing, manodopera qualificata e ben pagata. Cinquantamila nuovi posti di lavoro. Amazon spiega che sceglierà la nuova sede in base a diversi criteri tra cui l’efficienza delle infrastrutture, la vicinanza di grandi università che formano giovani talenti. Fin qui tutto bene. Ma Bezos aggiunge un altro messaggio: la nuova sede sarà ubicata in questa o quella città anche a seconda del carico fiscale.
Comincia una gara tra le città americane. Si mettono in mostra come reginette a un concorso di bellezza, vantando i propri attributi. In parallelo, governatori e sindaci mandano a dire al chief executive e principale azionista di Amazon quanti sgravi fiscali gli offriranno. È l’ennesimo remake di un film classico, un déjà vu terribilmente scontato. Le multinazionali mettono in concorrenza fra loro gli Stati, di fatto li ricattano: se mi vuoi, e se vuoi l’occupazione che io creo, devi farmi pagare meno tasse possibile. È questa logica che ci ha portati al mondo attuale, dove le mega-imprese e gli straricchi hanno cento modi legali per eludere le tasse, mentre il ceto medio viene spremuto.
Nel caso di Amazon abbiamo battuto ogni record. Alla fine l’azienda, commossa dalle offerte generose, ha deciso di creare non una ma due nuove sedi. La prima sorgerà a New York, nel quartiere di Long Island City che fa parte del borough di Queens. La neodeputata Alexandria Ocasio-Cortez ha calcolato che sommando le esenzioni fiscali offerte dal Comune e dallo Stato di New York, ogni posto di lavoro creato da Amazon costerà 40’000 dollari di mancato gettito fiscale.
Il crollo d’immagine più disastroso resta quello che colpisce «faccia di cherubino» Zuckerberg. L’ultimo scoop del «Wall Street Journal» da una gola profonda: in una riunione ai vertici di Facebook, il fondatore e chief executive ha usato toni durissimi coi suoi. «Siamo in guerra», ha detto. Lui che un tempo usava le assemblee del personale per consigliare bei libri da leggere e corsi di mandarino, adesso dà la caccia ai dissidenti interni e attacca la stampa. Il problema strutturale per Facebook è che il suo mercato si è fermato. I giovani disertano questa rete sociale; il governo cinese non la vuole in casa propria. Vanno meglio filiali come Instagram, i cui dirigenti però si sono dimessi in polemica col saccheggio della privacy degli utenti.
Ai miasmi che intossicano l’aria della Silicon Valley contribuisce il duro attacco di Tim Cook, il chief executive di Apple che prende una posizione diametralmente opposta a Facebook, Google e Amazon: «Il mercato non sta funzionando, l’auto-regolazione è un fallimento, dobbiamo accettare un maggiore intervento dello Stato». Eresìa pura per il credo liberal-libertario della West Coast, e forse Steve Jobs si sta rivoltando nella tomba.
Alle tensioni contribuisce il crescente disagio dei dipendenti. Quelli di Google sono all’avanguardia, hanno inscenato manifestazioni di protesta contro il proprio top management, roba mai vista nel paradiso strapagto delle stock-option. Proteste contro la cultura di tolleranza verso le molestie sessuali; contro la cooperazione con l’industria bellica; contro l’acquiescenza verso la censura cinese.
Intanto la California brucia nel rogo degli incendi veri e dell’emergenza sociale dei senzatetto. Ma anche questo chiama in causa i super-miliardari del digitale. Ci promettono un futuro «user-friendly» e una società iperefficiente. Non risolvono neppure i problemi nel loro cortile di casa.