La Germania senza la sua Angela

L’addio – Sarà difficile per il successore della Cancelliera raccogliere l’eredità di questa europeista pragmatica che ha portata la CDU verso il centro sinistra
/ 05.11.2018
di Alfredo Venturi

Armin Laschet rende l’onore delle armi: «Sono stati diciotto anni di successi quelli in cui la Cancelliera ha guidato il nostro partito portandolo al governo». Ministerpräsident del più popoloso fra i Länder tedeschi, il Nordreno-Westfalia, Laschet è uno dei possibili candidati alla più difficile successione che mai si sia prospettata in Germania. In crisi di consenso ormai da alcuni anni, stordita dalle massicce perdite della sua CDU (Unione cristiano-democratica) e del partito gemello CSU (Unione cristiano-sociale) in Baviera e in Assia, Angela Merkel si è apparentemente rassegnata all’inevitabile. Il prossimo 8 dicembre, quando la CDU riunita a congresso ad Amburgo rinnoverà i vertici, non ripresenterà la sua candidatura. Lascerà dunque la presidenza dell’Unione alla quale si era dedicata fin dal 2000, quando aveva preso il posto di Wolfgang Schäuble a sua volta successore di Helmut Kohl, il cancelliere della riunificazione travolto da una vicenda di finanziamenti al partito di cui non volle chiarire la provenienza.

Ma questo non è che un primo passo. Parlando di esito elettorale «amaro e deludente», la Bundeskanzlerin annuncia un’uscita graduale e definitiva dalla scena pubblica. Dopo avere lasciato la guida del partito resterà al vertice del governo federale, che occupa dal 2005 quando prese il posto del socialdemocratico Gerhard Schröder: ma solo per pochi anni. Al termine dell’attuale quarto mandato, nel 2021, si ritirerà a vita privata. A quel punto avrà governato la Germania per sedici anni, proprio come il suo mentore Helmut Kohl, Cancelliere dal 1982 al ’98. Ha sempre detto di considerare le due cariche, capo del partito e del governo, strutturalmente inscindibili, ma da politica esperta sapeva di dover dare un segnale di rinnovamento, al tempo stesso preparando la transizione meno traumatica consentita dalle circostanze. Per questo resterà al timone della Repubblica Federale fino alla scadenza del mandato. In particolare guiderà il governo in occasione del cruciale voto europeo in programma nel maggio 2019.

Sessantaquattrenne, amburghese di nascita ma cresciuta nella Repubblica democratica tedesca, formazione scientifica fino al dottorato in chimica quantistica, das Mädchen, come la chiamava Kohl, si lanciò nella grande politica dopo gli esordi nei gruppi di protesta che animarono il disgregarsi della Prussia rossa di Erich Honecker. Ha goduto di un lungo periodo di potere autorevole e indiscusso. Ha svolto con successo un ruolo storico: fedele alla divisa con cui Kohl («Germania la nostra patria, Europa il nostro futuro») volle tranquillizzare un mondo turbato dalla riunificazione del gigante geopolitico, si è trovata a capo della Germania europea ma anche dell’Europa tedesca. Infatti il peso demografico ed economico della Repubblica Federale non poteva che tradursi in una massiccia egemonia sull’Unione di Bruxelles, che la Cancelliera ha saputo esercitare con il massimo di delicatezza compatibile con la realtà di fatto.

A tradirla è stata, dieci anni dopo l’ascesa al vertice, una lungimirante visione di statista che spaziava ben oltre le angustie dell’orticello elettorale. Di fronte al dramma delle guerre mediorientali Angela Merkel rifiutava d’inseguire un facile consenso popolare. Centinaia di migliaia di profughi siriani, iracheni e afghani bussavano alle porte dell’Europa, secondo lei l’Europa non poteva, se non tradendo i suoi valori, respingere quell’umanità perseguitata dalla storia. E così una marea di profughi, quasi un milione, nel 2015 ha potuto varcare la frontiera tedesca. Avvezza a interpretare le motivazioni del consenso, la Cancelliera sapeva che avrebbe pagato cara la sua generosità, peraltro suffragata da considerazioni  documentate sulle necessità demografiche e occupazionali di un Paese afflitto da bassi indici di natalità. In più, mentre l’Unione Europea balbettava sul tema lacerante delle migrazioni e gli egoismi nazionali dilagavano nel continente, anche in Germania si facevano avanti formazioni politiche pronte a cavalcare il disagio di un fenomeno mai chiaramente spiegato, a fondare le proprie fortune sul più fermo no all’«invasione».

E così si sono gradualmente assottigliate le fortune elettorali che in altri tempi l’avevano largamente favorita, fino alle sconfitte registrate in Baviera, dove la CSU ha conosciuto il più drastico ridimensionamento di sempre nonostante le ripetute prese di distanze dai gemelli della CDU e dalle «improvvide» aperture della Cancelliera, e ora in Assia. Accompagna la disfatta cristiano-democratica e cristiano-sociale il crollo verticale della SPD, il partito della socialdemocrazia alleato nel governo di grande coalizione, mentre è cresciuto il partito ecologista dei Verdi che ha ereditato in pratica il patrimonio d’opinione dei socialdemocratici. Un vero terremoto, tanto più notevole in un elettorato propenso alla stabilità, certo non abituato a simili sconvolgimenti del quadro politico.

Per quanto importante, la questione migratoria non è la sola causa della declinante popolarità di Angela Merkel. Più in generale la Cancelliera sconta una gestione di governo che al collaudato conservatorismo delle Unioni cristiane ha sostituito, anche in conseguenza della coalizione con la socialdemocrazia, un cauto approccio riformista. Nei primi tredici anni di cancellierato non ha soltanto aperto le frontiere nazionali ai profughi mediorientali. Ha anche predisposto, dopo la catastrofe di Fukushima, l’abbandono dell’energia nucleare. Ha abolito il servizio militare obbligatorio. Si è pronunciata in favore dei matrimoni omosessuali.

Per usare una terminologia che ormai mostra la corda, la Merkel ha introdotto nella gestione elementi di sinistra che da una parte hanno complicato i rapporti con gli alleati-fratelli bavaresi della CSU, tradizionalmente più conservatori, mentre dall’altra hanno favorito l’ascesa di movimenti di protesta come l’Alternative für Deutschland, che alle ultime legislative è approdata al Bundestag con oltre il dodici per cento dei voti per poi sfondare nelle successive consultazioni regionali. Per non parlare delle ondate di rinascente neonazismo, nutrite soprattutto nelle province dell’Est da un sempre più diffuso sentimento di xenofobia.

Perplessa davanti alla svolta impressa alla politica federale, la Germania cerca ora di orientarsi fra le possibili personalità destinate a raccogliere il testimone lasciato da Angela Merkel. Chi si prenderà la briga di pilotare la CDU in questi frangenti così tempestosi? E fra tre anni chi potrà rappresentare l’Unione nella nuova competizione per la Cancelleria federale? Oltre al Ministerpräsident Laschet, figura fra gli aspiranti alla presidenza del partito Friedrich Merz, da sempre critico nei confronti del governo Merkel, così come il ministro federale della salute Jens Spahn che nella CDU rappresenta l’ala più conservatrice, dunque più ostile alla Cancelliera.

Una soluzione nel segno di una relativa continuità potrebbe essere impersonata da Annegret Kramp-Karrenbauer che fu a capo del governo regionale della Saar e attualmente come segretaria generale della CDU è politicamente molto vicina alla presidente uscente. Come è inevitabile quando si tratta di sostituire una personalità forte e temprata dalla consuetudine del potere, sarà in ogni caso una sfida molto difficile. Intanto i populisti cantano vittoria e si ripromettono di fare sfracelli l’anno prossimo, quando in Germania e negli altri paesi dell’Unione un voto enigmatico e inquietante rinnoverà il Parlamento europeo.