La fragilità dello zar e del suo impero

L’ex protetto di Vladimir Putin, Evgeny Prigozhin, ha di fatto aperto i giochi per la successione del capo del Cremlino
/ 03.07.2023
di Anna Zafesova

La stabilità e la verticalità: le due colonne portanti del regime politico che Vladimir Putin ha impiegato quasi 25 anni a costruire sono stati fatti saltare entrambi nella notte del 23 giugno scorso, quando Evgeny Prigozhin, il comandante dell’armata di mercenari Wagner, ha lanciato un ammutinamento, una rivolta armata, un golpe, una marcia su Mosca che si è fermata soltanto a 200 chilometri dal Cremlino. Per tutto il giorno di sabato 24 giugno il mondo ha assistito sconcertato a un capitano di ventura che alla guida di un mini-esercito di mercenari e galeotti ha abbandonato il fronte ucraino, è tornato in territorio russo, ha occupato senza incontrare la minima resistenza il centro di Rostov sul Don, la maggiore città del sud russo, e ha iniziato la sua marcia verso la capitale. Nelle ore successive la colonna di Wagner ha attraversato senza problemi altre due regioni russe, è uscita indenne da un raid aereo dell’esercito regolare, ha abbattuto dalle sue batterie della contraerea sei elicotteri, un caccia e un aereo da trasporto, in un episodio breve ma feroce di una micro guerra civile nel cuore della Russia, e poi ha fatto marcia indietro. «Per non spargere altro sangue russo», ha spiegato Prigozhin. Putin, che dopo diverse ore di assenza è apparso alla televisione russa promettendo di punire i «traditori», verso sera ha concesso il perdono agli ammutinati, piegandosi per la prima volta nella sua carriera a una trattativa, nella quale per giunta è stato costretto a cedere.

Suona come una sceneggiatura di un film di fantapolitica, ma è stato invece un (sur)reale terremoto, il cui sismogramma deve essere ancora decifrato e le scosse di assestamento si faranno sentire a lungo. Per la prima volta in quasi un quarto di secolo la gerarchia russa si è ribaltata, e Putin – nonostante almeno formalmente non sia stato contestato nella «marcia della giustizia» dei Wagner – si è trovato surclassato nella sua posizione di unico «uomo forte» della Russia. Prigozhin – che nelle ultime settimane era già emerso non solo come il critico più violento del ministro della Difesa Sergey Shoigu e dei risultati della guerra che conduce, ma come la voce di denuncia più esplicita che si fosse levata in Russia dopo l’arresto di Alexey Navalny – si è ritirato da Rostov con quasi mezzo milione di russi che avevano lasciato dei pollici versi e dei faccini da clown sotto il suo post su Telegram che annunciava la fine del golpe. L’avanzata dei Wagner per mezza Russia era stata accompagnata dal silenzio assordante delle autorità, degli esponenti del Governo e dei propagandisti solitamente molto aggressivi del regime putiniano, e anche dagli applausi di parte dell’opposizione in esilio che, nonostante le sue aspirazioni di democrazia, ha sperato di trovare un improvviso alleato in un capo dei mercenari ultranazionalista, diventato famoso perché terrorizzava i dissidenti e girava video in cui ammazzava i «traditori» del suo esercito a martellate in testa.

Non si è trattato soltanto della sortita fortunata di un signore della guerra. Prigozhin ha messo in luce la crisi profonda in cui versava il regime putiniano e ora entrambi, il presidente e il suo «cuoco», si dedicheranno a valutare i propri nuovi potenziali. Il primo a racimolare quel che resta del suo consenso e il secondo a misurare e organizzare la sua base improvvisamente aumentata. Probabilmente il capo del Cremlino procederà a stilare l’elenco di oligarchi e ministri che nelle ore della marcia su Mosca hanno preso aerei privati verso destinazioni estere, in primo luogo la Turchia. Probabilmente procederà a purghe dei reparti militari che si sono rifiutati di scendere contro i Wagner, o che addirittura sarebbero passati dalla loro parte, facendo proprie le accuse di mortale inefficienza contro i generali russi lanciate da Prigozhin. Probabilmente si apriranno regolamenti dei conti nei servizi segreti, che non sono stati in grado, a quanto pare, di avvertire il pericolo. Probabilmente la paranoia dello zar troverà ora un nuovo obiettivo: la Guardia nazionale, creata dai reparti di polizia per disperdere le proteste in piazza dei liberali, considerate per anni da Putin la vera minaccia al suo regime, ora verrà dotata di carri armati e altri mezzi pesanti, nel tentativo di controbilanciare quell’esercito che Shoigu ha mostrato di non poter controllare (e che è stato ulteriormente umiliato dal perdono concesso ai Wagner nonostante la morte di almeno 12 militari nei velivoli abbattuti).

Qualunque giro di vite non riuscirà però a far dimenticare, ai russi e al resto del mondo, lo spettacolo del drammatico vuoto di potere creatosi al posto di quella che sembrava una dittatura solida. Le frettolose, brevi e confuse apparizioni di Putin nei giorni successivi alla rivolta, con il presidente che insisteva che il golpe «sarebbe stato represso comunque», hanno solo aumentato l’impressione di fragilità offerta da un leader che al primo segno di pericolo si era rifugiato nel bunker della sua dacia vicino a Pietroburgo, e ha dovuto farsi aiutare nel negoziato da Aleksandr Lukashenko, il dittatore bielorusso che sembrava ormai avviato a venire commissariato definitivamente dalla Russia. Qualche propagandista russo ha già tentato di accusare del golpe l’Occidente, sostenendo che Prigozhin avesse agito per conto dei soliti nemici britannici o americani. Tesi che non spiega come mai Prigozhin sia rimasto in libertà, con garanzie pubbliche di incolumità fornite da Putin e un patto che lo vede «esiliato» in Bielorussia insieme ai suoi uomini.

Il problema di Putin è che il suo «cuoco» – artefice di numerose operazioni per conto del Cremlino: dagli interventi in Africa per sostenere dei dittatori (e cercare i diamanti), alle guerre in Siria e nel Donbass, alla diffusione dei troll russi nella Rete americana alla vigilia delle elezioni di Donald Trump, nel Russiagate del 2016 – è probabilmente a conoscenza di troppi segreti per essere eliminato. Prigozhin è il frutto del sistema della gestione di potere putiniano: la privatizzazione dello Stato in una commistione di interessi economici e politici che ha appaltato a diversi clan di amici del presidente settori interi dell’economia, della società e perfino della sicurezza della Federazione Russa.

È stato Putin a rendere il capo della Wagner ricco, potente e intoccabile, con la Duma che ha perfino approvato, su sua richiesta, una legge che proibisce di «screditare» lui e i suoi mercenari. È stato Putin a permettere a Prigozhin, pur di sconfiggere gli ucraini, di reclutare nelle carceri russe 40 mila detenuti, con il presidente che firmava – in violazione di qualunque legge – decreti di grazia a rapinatori, assassini e banditi sopravvissuti alla carneficina di Bakhmut. È stato Putin a finanziare i Wagner: nel suo risentimento, ha reso pubblico lui stesso le somme astronomiche, due miliardi di euro in un anno tra armi e salari, con un altro miliardo guadagnato nel frattempo dalle società di Prigozhin negli appalti per le mense del ministero della Difesa. Infine è stato Putin a considerarsi abbastanza forte da governare i vari clan di fedelissimi, scagliandoli uno contro l’altro in faide che li indebolivano. Ora che il debole è lui, in una guerra contro tutto il mondo che non riesce a vincere, è proprio un suo cortigiano ad aprire i giochi per il trono, e fermarli sarà molto difficile.