I negoziati per la formazione del governo tedesco sono cominciati, a guidarli è la cancelliera Angela Merkel , che ha vinto le elezioni del 24 settembre. Il suo partito, la Cdu, ha preso meno voti di quanto i sondaggi avessero previsto, ma è comunque il partito più forte della Germania, e quello che gestirà la formazione del governo di coalizione. I giornali internazionali si sono riempiti di analisi sulla debolezza della Merkel, con tanto di previsioni catastrofiche sul futuro dell’Europa che, come si sa, è strettamente collegato a quello tedesco: in certi momenti, pareva quasi che la cancelliera avesse perso le elezioni, e che a sconfiggerla fossero stati i nazional-populisti dell’Alternative für Deutcheland (AfD), che sono arrivati al terzo posto, dietro ai socialdemocratici, reduci dal risultato peggiore del Dopoguerra. L’antimerkelismo è uno sport molto popolare in Europa, e certo ora la creazione del governo non sarà semplice, ma dopo l’iniziale scoramento, molti iniziano a dire che la stabilità tedesca non è perduta.
L’AfD è andata molto bene, ha preso il 13 per cento dei voti, e considerato che poco più di un mese prima del voto era ferma al 7-8 per cento, si può parlare di successo. Anche se resta sotto al 16 per cento che aveva nel consenso popolare una decina di mesi fa, quando l’onda populista, dopo la vittoria della Brexit nel Regno Unito e quella di Donald Trump negli Stati Uniti, era ai suoi massimi. Se l’AfD, con i suoi 90 parlamentari, non sarà comunque coinvolta nelle trattative per la coalizione, il terzo posto ha fatto risuonare un campanello d’allarme: com’è possibile che un partito con evidenti venature neonaziste, une retorica violenta nei confronti dell’Europa e dell’immigrazione, sia andato tanto bene? Soprattutto nell’est della Germania, dove gli immigrati non ci sono: le ragioni vanno quindi cercate altrove, soprattutto in uno slittamento verso l’AfD della classe lavoratrice, che ha disertato sia i socialdemocratici sia il partito alla sua sinistra, la Linke. Ma il campanello d’allarme è anche tutto sommato salutare: gli europei pensavano di aver scampato l’implosione, in quest’anno scandito da conferme di unità e di slanci liberali (con la vittoria di Emmanuel Macron in Francia a fare da vessillo), ma ora hanno capito che nazionalismi e populismi non si combattono soltanto con la retorica, ci vogliono le riforme e un ripensamento concreto della struttura comunitaria.
Per sfruttare quella che i leader europei chiamano «la finestra d’opportunità» del rilancio dell’Ue, la Merkel deve dotare il suo Paese di un governo stabile in poco tempo. Sulla sua capacità di raggiungere compromessi e di favorire un clima di coabitazione sereno non ci sono per fortuna molti dubbi: il tanto acclamato «metodo Merkel», che l’ha tenuta al potere per dodici anni e l’ha riconfermata per altri quattro, si fonda proprio su questa sua abilità. I suoi interlocutori, annusato il ridimensionamento nelle urne, stanno già battendo cassa, fissando le condizioni per entrare nel governo. Lei, come è sua consuetudine, li lascia fare: è nella sua natura condurre il ballo senza farsi notare, come una moglie che fa credere al marito che sia lui a decidere.
Al momento l’ipotesi più accreditata è la coalizione Giamaica, nero-giallo-verde, cioè cristianodemocratici, liberali e verdi. Tra i liberali e i verdi le differenze sono parecchie, come è facile immaginare, ma in realtà le anime di questi due partiti corrispondono abbastanza bene a quella della Merkel: i liberali vogliono austerità dentro e fuori la Germania (soprattutto dentro, con il taglio delle tasse), mentre i verdi vogliono mantenere la politica d’accoglienza per i rifugiati e chiedono attenzione sulle politiche sociali ed ambientali. I liberali puntano al ministero delle Finanze, che da anni è stato occupato da Wolfgang Schäuble, che ha una vena austera piuttosto spiccata: Schäuble ha già detto che vuole diventare il presidente del Bundestag, e ha lasciato il posto a un eventuale ministro liberale che, a occhio, non sarà nei fatti molto diverso da lui. I verdi invece puntano a occuparsi di politica estera, e il loro leader, Cem Ozdemir, è di origini turche: la loro presenza potrebbe rivelarsi un’occasione per comprendere meglio i rapporti con la sponda sud del Mediterraneo, anche se le relazioni in particolare con la Turchia sono diventate pessime (la scorsa settimana l’ambasciatore tedesco ad Ankara è stato richiamato per la sedicesima volta in pochi mesi). Non va dimenticato però che il partner di maggioranza, nonché cancelliere, è comunque la Merkel, che negli anni è riuscita a far quadrare i conti e al contempo introdurre il salario minimo, andando incontro a molte esigenze e ai propri interessi con la sua leadership calma e camaleontica.
Certo, con i socialdemocratici forse il lavoro era più semplice. Ma il leader dell’Spd, Martin Schulz, ha per ora escluso la possibilità di far parte di un’altra eventuale grossa coalizione. Saremo all’opposizione, ha detto, recuperando subito i suoi tipici toni da pugile, che durante la campagna elettorale gli erano mancati (ed è stato molto criticato per questo). Da un punto di vista interno alla Germania, il fatto che l’Spd sia all’opposizione è, ancora una volta, salutare: senza, il lavoro di ostacolare e bilanciare la Merkel sarebbe appannaggio dell’AfD, e questo non se lo augura nessuno. Per di più, fuori dalla coalizione, l’Spd potrebbe davvero provare a ricrearsi un’identità chiara e riconoscibile agli elettori, dopo anni di coabitazione che hanno inevitabilmente annacquato le posizioni del partito, in un momento poi in cui gli scontri ideologici dentro alle sinistre occidentali sono diventati feroci ed elettoralmente deludenti. Da un punto di vista esterno, invece, la presenza dei socialdemocratici nel governo tedesco suonava molto rassicurante, una garanzia di tolleranza nei confronti dei paesi meno rigorosi e nessun ostacolo durante la svolta nella politica d’accoglienza dei rifugiati.
È anche per questo – per quella «volontà di stabilità» che la Merkel ripete come un mantra già dalla sera delle elezioni – che non è escluso che, alla fine, la cancelliera riesca a convincere i socialdemocratici a un’altra alleanza. Al momento sembra improbabile, ma quando la Merkel dice che parlerà «con tutti i partiti» che possono dare solidità al governo in tempi non lunghi – si spera entro Natale – sta lasciando aperta la porta proprio all’Spd.
Mentre si valutano i vari livelli di intransigenza che i diversi movimenti vorranno ostentare per ottenere maggior peso nella coalizione, l’unica variabile rilevante è il tempo. L’Europa non può permettersi mesi di stallo, come ha fatto capire il presidente francese Macron nel suo lungo, programmatico discorso all’università Sorbonne di Parigi. Macron ha fissato le linee guida di un’Europa «sovrana, unita, democratica e di sicurezza», introducendo nuovi progetti comunitari per ridare «ambizione» ai popoli europei e trasformare i problemi esistenti in un’opportunità di coesione. Con una visione di lunga portata – come saremo nel 2024? – il capo dell’Eliseo ha improntato la sua azione su crescita e innovazione, per far sì che il baricentro del mondo, tra Brexit e trumpismi, si assesti sul continente europeo. C’è chi ha detto che, in pochi giorni, i rapporti di forza tra Parigi e Berlino si sono invertiti: ora la Merkel assomiglia quasi a François Hollande, ex presidente francese, ha insinuato qualcuno. Ma quando Macron parla di coesione tra Francia e Germania sottintende che ancora è la prima a essere aggrappata alla seconda. Non soltanto per evidenti questioni economiche, ma anche perché a Berlino c’è pur sempre la Merkel.